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Ragazzi difficili - Piero Bertolini, Sintesi del corso di Pedagogia

Riassunto dettagliato di tutti i capitoli

Tipologia: Sintesi del corso

2015/2016

Caricato il 01/02/2016

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RAGAZZI DIFFICILI
I RAGAZZI DIFFICILI
1. Tracce di vita
2. I «ragazzi difficili»: dare un nome e tracciare i confini
Si dice che un ragazzo è suscettibile ad attenzione sociale quando supera la soglia di accettabilità
sociale data dall'immagine-norma del bambino/adolescente (parametri instabili per le fluttuazioni
storiche e culturali). Ci sono modelli che guidano le decisioni e le pratiche nei confronti dei minori
e stabiliscono le soglie di accettabilità sociale delle loro condizioni di vita e del loro
comportamento. In base a questi riferimenti un minore può essere considerato: a rischio, irregolare,
disadattato o delinquente → ragazzi difficili = percezione di una difficoltà, di un problema.
Se i comportamenti devianti diversi vengono letti alla luce della storia in cui si collocano, emergono
profili biografici costellati da difficoltà, interruzioni nel processo di costruzione di sé come
soggetto, schemi di relazione con il mondo e con gli altri profondamente disfunzionali.
3. La difficoltà come categoria pedagogica
Il termine “difficile”, inteso in senso pedagogico, individua quelle condizioni in cui la soglia della
problematicità viene superata provocando difficoltà, rendendo necessaria la costruzione di un
intervento pedagogico (da un punto di vista pedagogico è poco influente la distinzione di «ragazzi
difficili»).
Ragazzi a rischio. Si tratta di ragazzi che vivono in situazioni caratterizzate da carenze di
ordine materiale (povertà, insicurezza economica, disagio abitativo, contesto sociale di
degrado) o relazionale (forme di rifiuto o di abbandono, disgregazione della famiglia). I
modelli deterministici affermavano che il futuro di un ragazzo era influenzato dal suo
passato → condizione superata dai modelli probabilistici.
È emerso che i ragazzi che vivono in aree urbane caratterizzate da un alto tasso di
disoccupazione, degrado abitativo, insufficienza di servizi, installazione precaria di
immigrati, sono con molta probabilità destinati a una carriera da delinquente. Da un punto di
vista pedagogico, l'intervento educativo si fonda sulla necessità di costruire intorno al
minore un contesto adeguato per risolvere il disagio attuale → se non si fa attenzione
diventa un intervento controproducente
Ragazzi disadattati. In questo caso, il luogo delle difficoltà non è più individuato solo nel
contesto di vita del ragazzo ma nella sua assunzione di atteggiamenti e comportamenti
disadattivi. Sono adolescenti o preadolescenti che in risposta a situazione critiche assumono
atteggiamenti lesivi di sé o del contesto in cui vivono: atteggiamenti svalutativi o oppositivi,
o messa in atto di comportamenti irregolari (fuga da casa, furti, abbandono scolastico). A
monte della condizione di disadattamento è possibile riconoscere difficoltà, spesso
riconducibile a carenze di ordine educativo
Ragazzi delinquenti. Sono tutti quei minori che hanno infranto le norme del codice penale.
Un ragazzo che che ha a che fare con la giustizia si trova indubbiamente in una situazione di
difficoltà (esperienza con significato degradante). Questi ragazzi non esigono di un processo
rieducativo diverso dagli altri ragazzi difficili, sono solo indice di un maggior stato di
tensione e difficoltà nel processo di costruzione di sé.
I minori coinvolti in attività di criminalità organizzata, non hanno solo difficoltà, ma si
adeguano a un modello culturale costruito all'interno di un gruppo (stile di vita)
4. Da una categoria generale a un approccio locale
L'aver proposto una classificazione unitaria dei ragazzi difficili non significa affatto optare per un
processo educativo generale e standardizzato. Dietro un agire c'è sempre un soggetto e le sue
motivazioni.
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RAGAZZI DIFFICILI

I RAGAZZI DIFFICILI

**1. Tracce di vita

  1. I «ragazzi difficili»: dare un nome e tracciare i confini** Si dice che un ragazzo è suscettibile ad attenzione sociale quando supera la soglia di accettabilità sociale data dall'immagine-norma del bambino/adolescente (parametri instabili per le fluttuazioni storiche e culturali). Ci sono modelli che guidano le decisioni e le pratiche nei confronti dei minori e stabiliscono le soglie di accettabilità sociale delle loro condizioni di vita e del loro comportamento. In base a questi riferimenti un minore può essere considerato: a rischio, irregolare, disadattato o delinquente → ragazzi difficili = percezione di una difficoltà, di un problema. Se i comportamenti devianti diversi vengono letti alla luce della storia in cui si collocano, emergono profili biografici costellati da difficoltà, interruzioni nel processo di costruzione di sé come soggetto, schemi di relazione con il mondo e con gli altri profondamente disfunzionali. 3. La difficoltà come categoria pedagogica Il termine “difficile”, inteso in senso pedagogico, individua quelle condizioni in cui la soglia della problematicità viene superata provocando difficoltà, rendendo necessaria la costruzione di un intervento pedagogico (da un punto di vista pedagogico è poco influente la distinzione di «ragazzi difficili»).
  • Ragazzi a rischio. Si tratta di ragazzi che vivono in situazioni caratterizzate da carenze di ordine materiale (povertà, insicurezza economica, disagio abitativo, contesto sociale di degrado) o relazionale (forme di rifiuto o di abbandono, disgregazione della famiglia). I modelli deterministici affermavano che il futuro di un ragazzo era influenzato dal suo passato → condizione superata dai modelli probabilistici. È emerso che i ragazzi che vivono in aree urbane caratterizzate da un alto tasso di disoccupazione, degrado abitativo, insufficienza di servizi, installazione precaria di immigrati, sono con molta probabilità destinati a una carriera da delinquente. Da un punto di vista pedagogico, l'intervento educativo si fonda sulla necessità di costruire intorno al minore un contesto adeguato per risolvere il disagio attuale → se non si fa attenzione diventa un intervento controproducente
  • Ragazzi disadattati. In questo caso, il luogo delle difficoltà non è più individuato solo nel contesto di vita del ragazzo ma nella sua assunzione di atteggiamenti e comportamenti disadattivi. Sono adolescenti o preadolescenti che in risposta a situazione critiche assumono atteggiamenti lesivi di sé o del contesto in cui vivono: atteggiamenti svalutativi o oppositivi, o messa in atto di comportamenti irregolari (fuga da casa, furti, abbandono scolastico). A monte della condizione di disadattamento è possibile riconoscere difficoltà, spesso riconducibile a carenze di ordine educativo
  • Ragazzi delinquenti. Sono tutti quei minori che hanno infranto le norme del codice penale. Un ragazzo che che ha a che fare con la giustizia si trova indubbiamente in una situazione di difficoltà (esperienza con significato degradante). Questi ragazzi non esigono di un processo rieducativo diverso dagli altri ragazzi difficili, sono solo indice di un maggior stato di tensione e difficoltà nel processo di costruzione di sé. I minori coinvolti in attività di criminalità organizzata, non hanno solo difficoltà, ma si adeguano a un modello culturale costruito all'interno di un gruppo (stile di vita) 4. Da una categoria generale a un approccio locale L'aver proposto una classificazione unitaria dei ragazzi difficili non significa affatto optare per un processo educativo generale e standardizzato. Dietro un agire c'è sempre un soggetto e le sue motivazioni.

DEVIANZA MINORILE E PARADIGMI POSITIVISTI

1. Individuare le cause: valori e limiti di una ricerca L'esigenza di spiegare il fenomeno del disadattamento minorile si è tradizionalmente sviluppata all'interno di un paradigma eziologico (modelli deterministici: problema → una causa). Si è alla ricerca di un nesso causale che spieghi il fenomeno sociale della devianza. 2. Dalle cause organiche alle cause psichiche Per quanto i fattori di ordine biologico possano rivelarsi relativamente responsabili di comportamenti devianti, la loro validità esplicativa generale è estremamente debole (da fattori neurologico e cromosomici a comportamenti devianti). La componente biologica non appare a priori individuabile come causa generalizzante di comportamenti devianti. Bisogna focalizzare la ricerca della cause di un comportamento antisociale nell'individuo (es. immaturità, anaffettività, punitività, debole strutturazione dell'Io, aggressività). 3. Il contesto familiare Gli studi sul comportamento deviante hanno attraversato anche il tema del contesto familiare (carenza cure materne, recupero della figura paterna, disgregazione familiare). È possibile riscontrare statisticamente una incidenza significativa di tali fattori tra quei giovani definiti delinquenti, ma resta il fatto che non tutti i giovani che vivono in analoghe situazioni familiari passano all'atto antisociale. La disgregazione della famiglia, la carenza di cure parentali, l'appartenenza della famiglia ad una subcultura criminale, la presenza in essa di soggetti che hanno già intrapreso una carriera deviante, sono tutte condizioni che creano una situazione difficile, tuttavia non hano un significato univoco e non implicano una evoluzione del minore predeterminabile, poiché entra in gioco la variabile soggettiva. 4. Il contesto sociale Per quanto il contesto relazionale di alcuni minori devianti sia estremamente rilevante, esso non è però sufficiente a spiegare la genesi di comportamenti devianti socializzati o gruppali. L'idea comune è che basterebbe frequentare cattive compagnie per diventare delinquenti; in realtà molte persone che hanno contatti frequenti con persone devianti non diventano per questo devianti. È dunque necessario adottare un approccio interpretativo e interrogarsi sulle ragioni che hanno spinto quel ragazzo ad entrare in quel gruppo. 5. La costruzione sociale della devianza La costruzione sociale della devianza non è individuata più in situazioni, contesti e ambienti di vita ma nel valore simbolico di alcune pratiche e forme di comunicazione interpersonale. La maggior parte dei minori che compaiono tra gli arrestati nelle statistiche giudiziarie appartengono effettivamente alle classi sociali più svantaggiate o provengono da aree urbane marginali. I giovani delle classi inferiori non sono tanto quelli che commettono più reati quanto quelli che hanno maggiori probabilità di venire arrestati. L'implicita associazione causale tra delinquenza e povertà preordina inconsapevolmente l'attenzione dei dispositivi di controllo sociale facendo sì che questi giovani intercorrano più frequentemente degli altri nell'arresto. Molte ricerche hanno dimostrato che non esiste una relazione fortemente significativa tra atti delinquenziali e classe sociale del trasgressore e che alcuni reati (furti, aggressioni) vengono commessi con più probabilità da giovani appartenenti alla classe media. L'idea condivisa che il delinquente appartiene a ceti deprivati viene dal fatto che una volta che il reato è stato scoperto, lo status socioeconomico dell'individuo guida l'innescarsi dei vari stadi di controllo sociale (comportamenti). La correlazione statistica tra devianza e appartenenza a una certa classe sociale sembra circoscrivibile solo ad un numero ristretto di reati (arresto). Lo studio sulla costruzione sociale della devianza ha introdotto un ulteriore punto di vista sul fenomeno: insieme ai fattori di ordine biologico e psicologico, insieme a quelli di ordine economico

  • Corpo e immagini del corpo. La prima e più immediata forma di dipendenza è quella che lega il soggetto al corpo, luogo e strumento del suo incontro con il mondo (il corpo è la condizione della percezione del mondo naturale). L'attività del corpo non dipende solo dal suo funzionamento organico ma anche dalla sua rappresentazione culturale (ogni cultura elabora una visione del corpo e delle sue attività).
  • Il sapere condiviso: uno sfondo vincolante. Il corpo non è l'unico vincolo da cui dipende la costruzione di una personale visione del mondo, influiscono anche la dimensione intersoggettiva e le particolari visioni del mondo proprie dell'Altro. La storia personale rinvia continuamente ed è influenzata ad una storia extraindividuale: della famiglia, della classe sociale, della cultura.
  • L'intenzionalità dell'Altro: un altro vincolo. I modi particolari con cui l'altro intenziona il mondo, le forme tipiche del suo significare attivo influiscono sulla capacità del soggetto di intenzionare a sua volta 4. Dal concetto di causa all'idea di motivazione L'intenzionalità della coscienza non si esaurisce in una relazione costitutiva con l'oggettività, ma si precisa in un significare attivo: in una scelta di ciò che del mondo, anche già classificato, è pertinente per il soggetto e in un continuo investimento di valore su un mondo già valorizzato. La relazione tra oggettività e soggettività non si configura in termini di causalità, ma si articola intorno a una continua mediazione tra dipendenza dai vincoli del mondo reale (e della cultura) e autonomia del soggetto. Per comprendere la genesi di una certa visione del mondo, bisogna interrogarsi sul tipo di motivazione che relaziona soggetto e mondo. 5. Genesi passiva e genesi attiva in prospettiva La costruzione per genesi passiva è la premessa indispensabile, il punto di partenza necessario della sua genesi attiva. La costruzione per genesi attiva si da essenzialmente come una progressiva elaborazione del dato che produce senso risignificando continuamente il mondo. Questa rivisitazione si realizza in una presa di distanza dal mondo-dato-per-scontato. Attraverso l'attività intenzionale della sua coscienza, ogni soggetto cerca la reale realtà oltre il pregiudizio e l'interpretazione già sedimentata e al di là delle stratificazione di senso già acquisite. La formazione del soggetto procede da una duplice presa di coscienza. In primo luogo si tratta di prendere coscienza di sé, del proprio corpo come indispensabile mediatore tra sé e il mondo e della propria coscienza come condizione di possibilità di un rapporto attivo con il mondo. In secondo luogo si tratta di prendere coscienza della dimensione intersoggettiva in cui ogni individuo è irrimediabilmente inserito. 6. I luoghi dell'educazione Il versante passivo dello sviluppo del soggetto rappresenta contemporaneamente il principale luogo del processo di comunicazione e trasmissione culturale. Da questo punto di vista, ogni intervento pedagogico deve ripercorrere i momenti passivi della formazione della soggettività di un ragazzo, interrogarsi su quei vincoli e comprenderne il peso che essi hanno avuto sulla costruzione della sua soggettività. Un intervento pedagogico non può prescindere dall'esperienza che è stata trasmessa al ragazzo e dai modelli a cui è stato esposto. L'attenzione alla costruzione per genesi passiva della soggettività, si traduce in uno sguardo alla storia familiare e culturale del ragazzo, in una necessità di conoscerne il passato per trovare in esso le tracce che possano guidare la comprensione del suo comportamento antisociale.
  • Il corpo. L'azione educativa non può ignorare il peso che il corpo naturale, le sue possibilità o i suoi deficit hanno nel mediare l'incontro tra il ragazzo e il mondo che lo circonda. Un intervento pedagogico non può limitarsi a ratificare un passato, ma significa intervenire per rimodulare le dipendenze che legano il soggetto al suo corpo e all'immagine che egli ne ha.
  • I modelli di intenzionalità. Non è solo la visione del mondo del soggetto che dipende dalle sue prime esperienze, anche la sua stessa capacità di intenzionare il mondo è in parte

influenzata dalla capacità di intenzionare di chi gli è accanto. L'intervento pedagogico deve recuperare le potenzialità racchiuse in quelle dipendenze che legano il soggetto all'incontro con l'altro.

  • Il mondo dato-per-scontato. L'iniziale visione del mondo del soggetto è influenzata da quel mondo già classificato e valorizzato offerto al soggetto dallo scenario collettivo in cui egli è immerso. L'intervento pedagogico cerca di sensibilizzare il soggetto a cogliere la parzialità di ogni punto di vista sul mondo. L'educazione ritaglia dunque i suoi spazi di intervento recuperando le potenzialità dei vincoli e delle dipendenze che legano ogni soggetto al mondo. Lo sforzo educativo dovrebbe dirigere il soggetto verso la progressiva conquista della sua coscienza come coscienza intenzionale, verso la consapevolezza della sua capacità di intenzionare attivamente il mondo. La relazione educativa è centrale nell'indirizzare il processo di formazione della soggettività. Educare e ri-educare non significano liberare il soggetto dalle dipendenze naturali, storiche, culturali, ma portarlo alla consapevolezza della sua autonomia da tali dipendenze. 7. Verso una prassi pedagogica L'azione educativa deve essere fin dall'inizio sensibile alla libertà personale dell'educando e aperta alla prospettazione di punti di vista e valori non stereotipati e accettati come consuetudine. Una relazione educativa per essere autentica deve fondarsi su una reale comunicazione con l'altro.

DEVIANZA MINORILE E PARADIGMA PEDAGOGICO

1. Ragazzi difficili: perché? Ricostruire la storia attraverso cui un individuo giunge alla costruzione di sé come soggetto è la premessa necessaria per analizzare e comprendere quelle storie che presentano esiti diversi e spesso dolorosi per chi li vive e per chi vive con lui. Lo sviluppo di un individuo non dipende esclusivamente dalle situazioni a lui esterne, ma anche e sopratutto dall'attività intenzionale della coscienza individuale. Individuare le zone d'ombra tra il mondo e il ragazzo difficile è la premessa indispensabile per poter formulare gli orientamenti pedagogici e le metodologie d'intervento. 2. L'assenza dell'intenzionalità: la disperazione di non voler essere se stessi Il disadattamento può essere considerato il prodotto di un mancato o alterato funzionamento della coscienza intenzionale. Tutti i casi di irregolarità della condotta possono essere ricondotti a dei limiti nello sviluppo della coscienza intenzionale; gli studi effettuati evidenziano che tali limiti sono: l'assenza di intenzionalità e la distorsione dell'intenzionalità. Con «assenza di intenzionalità» si intende l'incapacità del soggetto di riconoscere l'intima struttura relazionale della realtà; più precisamente, indica una presenza eccessiva dell'oggetto nella visione del mondo del soggetto. Il soggetto appare incapace di trasformare la realtà che lo circonda in modo che sia significativo per lui e compatibile con i progetti e valori degli altri. Egli rimane costretto entro i limiti di una visione del mondo dominata dal senso della nullità del sé di fronte alle cose del mondo che gli appaiono dotate di una forza autonoma (non si sentono attivamente implicati nella costruzione della propria esistenza). Questo genera un atteggiamento nella vita quotidiana di dispersione nell'immediato e dunque un fatalismo devastante: il ragazzo rifiuta di essere se stesso, lasciandosi passivamente trascinare dalla fattualità → disadattamento prima di tutto interiore.

  • Di fronte a questo «eccesso di mondo». La classificazione dei comportamenti:
  • ricerca esclusiva della soddisfazione immediata: questa ricerca autocentrata di una soddisfazione è condannata a una perenne sconfitta. Il ragazzo incapace di considerarsi produttore di un progetto, non può regolare il suo comportamento in funzione di un fine da raggiungere, neanche nel raggiungimento di un piacere personale (adeguazione di sé al mondo) → soddisfazione illusoria
  • «la fuga da sé»: lo scetticismo porta alla non accettazione di sé e delle proprie possibilità, e a una svalutazione di sé → sparizione dal mondo a causa dei fallimenti nel diventare un altro

sua ri-educazione è volta al futuro). Tuttavia, l'intervento ri-educativo è più difficile, perché bisogna intervenire su una visione del mondo del ragazzo già sedimentata, che egli sente come propria e spesso come per nulla disadattiva. Una prima differenza tra educazione e rieducazione consiste quindi nella qualità delle difficoltà che in esse si incontrano (diverso ritmo di intervento, non impegno). Un altro tratto caratteristico dell'intervento rieducativo è la direzione: si procede dal futuro verso il passato e non viceversa. Nessun individuo che abbia assunto un comportamento irregolare potrà mai comprendere la distorsione e le lacune del suo stile di vita se prima non avrà modificato la sua visione del mondo (bisogna offrirgli nuove esperienze, possibilità). La trasformazione della sua visione del mondo, avvenuta progressivamente e autonomamente, gli permetterà una rivisitazione critica del passato e un suo effettivo superamento. Il significato della rieducazione è quello di una trasformazione attiva frutto non tanto di una sistematica negazione del passato quanto di una rinnovata proiezione nel futuro.

2. I momenti del percorso rieducativo Proporre un modello, un insieme di linee fondamentali che sostengono ogni concreto intervento rieducativo non significa stabilire una rigida tabella di marcia, una sequenza di tappe obbligatorie, ma questa è una pedagogia che dichiara fin dall'inizio la sua flessibilità.

  • La conoscenza del ragazzo. La prima preoccupazione è quella di giungere a una comprensione più autentica possibile del ragazzo; l'educatore deve mettersi nei punti di vista del ragazzo per raccogliere dati sulla sua storia di vita, sul suo ambiente familiare e sociale, per valutare come queste condizioni hanno influenzato il suo vissuto. È a partire dalla sua visione del mondo che il ragazzo agisce, ed è da questa che si può comprendere il perché del suo agire. Sono importanti osservazione e comprensione (circolo) → mettersi nel punto di vista dell'altro. L'osservazione è fondamentale per constatare l'esistenza di una difficoltà pedagogica tale da richiedere un intervento specializzato.
  • La destrutturazione e la ristrutturazione. Il vero e proprio intervento rieducativo comincia dopo l'osservazione. I primi due momenti del percorso rieducativo possono intrecciarsi o sovrapporsi e sono destrutturazione e ristrutturazione: individuano e raggruppano gli interventi ricolti principalmente alla dimensione psico-fisica del ragazzo. Si tratta azioni mirate al superamento di limiti oggettivi che impediscono al ragazzo di esercitare la sua capacità di intenzionare.
  • La dilatazione del campo di esperienza. È il terzo momento del processo rieducativo e si tratta di azioni o forme di comunicazione volte a rendere dinamica la vita del ragazzo per indurlo a superare le fissazioni dei suoi interessi e dei suoi atteggiamenti che lo costringono a schemi comportamentali asociali. L'idea è di far vivere al ragazzo situazioni nuove.
  • La costruzione di una nuova visione del mondo. Una interazione rieducativa è un progetto con uno scopo palese: far sì che il ragazzo possa ridisegnare la propria soggettività. Il momento conclusivo del percorso rieducativo è quello in cui il ragazzo, avendo avuto occasioni per scoprirsi responsabile delle proprie scelte, fa proprio questo nuovo modo di pensare se stesso nel-mondo-e-con-gli-altri. Tale momento è chiamato appropriazione soggettiva di un nuovo punto di vista (ristrutturazione dell'intenzionalità). In questa fase il compito dell'educatore è centrale nel guidare il ragazzo a prendere la consapevolezza del proprio cambiamento. 3. Ragazzi difficili e educatori tra autonomia e dipendenza L'intervento rieducativo deve educare ad una criticità responsabile, alla consapevolezza sia dei vincoli sociali che della propria autonomia e delle proprie possibilità di andare oltre e se il caso contro quelli stessi vincoli. Si tratta di mettere il ragazzo nelle condizioni di poter costruire il proprio senso e di saperli proporre con apertura alla negoziazione. L'autentica autonomia dell'individuo consiste in primo luogo nella sua capacità di riconoscere le sue dipendenze, di capire che esse sono necessarie alla sua esistenza (pensare in modo autonomo).

L'intervento rieducativo deve far sì che il ragazzo riconosca la reciproca determinazione di autonomia e dipendenza, che egli colga il valore del vincolo che non è limite puro ma «contesto». Recuperare l'autonomia personale del ragazzo, non si significa soffocare la capacità di intenzionare, il contributo soggettivo nella costruzione della realtà, ma di recuperarla e reindirizzarla. Il problema non è quello di svuotare il ragazzo di una sua visione del mondo per sostituirla con un pacchetto confezionati di modelli e verità, ma piuttosto di far leva su quell'autonomia soggettiva in modo che il ragazzo possa costruire una sua visione del mondo. Anche l'educatore durante l'intervento ha dei limiti, dei confini, e il primo è il ragazzo stesso.

CONOSCERE E COMPRENDERE

1. La sfida dell'incontro Come ogni primo incontro con un altro non familiare, quello tra educatore e ragazzo difficile implica un delicato passaggio da una situazione di radicale alterità ad una di riconoscimento reciproco. Tale passaggio non è affatto garantito. Durante l'osservazione l'educatore e il ragazzo sanno che è in gioco un processo di costruzione delle loro reciproche rappresentazioni e sono consapevoli che ciò che l'altro penserà sarà in parte dovuto a come egli agirà. La relazione fortemente asimmetrica che lega educatore e ragazzo colloca quest'ultimo in una posizione di inferiorità, di debolezza ed è quindi il ragazzo a essere più vulnerabile all'ansia → chiusura, indifferenza, lontananza alla comunicazione (disagio). Il ragazzo sente che il suo incontro con l'educatore è pregiudicato. L'educatore deve avere la capacità di controllare i meccanismi che presiedono alla formazione delle rappresentazioni, di lavorare sulla costruzione e decostruzione del proprio punto di vista, di mettere in parentesi le attribuzioni precostituite (stile educativo). 2. La ritualità dell'incontro Per far fronte a quei primi momenti dell'incontro, può essere costruttivo recuperare la funzione rituale (saluti, formule di cortesia), senza scivolare nel rigore del formalismo codificato. Ogni ragazzo sa bene che il primo scopo dell'educatore che sta di fronte a lui è quello di conoscerlo, il messaggio implicito che l'educatore deve riuscire ad inviargli è il suo desiderio di comprenderlo. 3. Conoscere e comprendere: le tecniche della conoscenza pedagogica Per conoscere specificità, individualità e irripetibilità del ragazzo è necessario mettere in campo due forme di conoscenza: una di tipo descrittivo-esplicativo e una di tipo comprendente. Nel caso del ragazzo difficile, assumere un atteggiamento tendente alla descrizione e alla spiegazione, significa procedere alla descrizione dei suoi atteggiamenti irregolari, cercando di precisare tutti quei fattori biologici, psicologici, educativi, sociali che nella storia del ragazzo sembrano aver avuto importanza decisiva al punto da poter assumere lo statuto di cause (sguardo rivolto al passato) → il comportamento irregolare viene interpretato come oggettualità, indipendentemente dal soggetto che lo ha prodotto → questa prospettiva deterministica non è sufficiente a cogliere la tipicità e l'originalità del ragazzo (l'educatore deve capire cosa ha provocato un comportamento e a quale scopo). Per mettersi efficacemente nel punto di vista del ragazzo difficile, l'educatore deve cercare di spogliarsi delle sue convinzioni e del suo modo di pensare. Si tratta di assumere uno stile educativo fondato sull'entropatia, ossia su quella tecnica pedagogica volta a cogliere la visione del mondo del ragazzo (sospensione momentanea dei suoi schemi interpretativi). Sapere che il ragazzo proviene da un certo ambiente socioculturale e ha vissuto in un determinato contesto permette di ricostruire il contesto oggettivo (es. una cosa è sapere che quel ragazzo è figlio di genitori separati, un'altra è capire cosa la separazione dei genitori ha significato per lui). 4. Il lavoro di équipe La competenza professionale dell'educatore ha delle caratteristiche distintive, un suo universo di applicazione ma anche dei confini precisi oltre i quali l'educatore deve poter fare riferimento ad

  • Il valore iniziatico del cambiamento. Il passaggio a nuove forme di vita quotidiana costituisce un evidente momento di discontinuità con il passato. Le trasformazioni dovrebbero essere presentate al ragazzo non come costrizioni gratuite ma come situazioni dotate di un preciso significato, quello di nuove relazione tra sé e il mondo. Non basta collocare il soggetto in nuovi spazi, in una nuova organizzazione del tempo quotidiano, ma è necessario lavorare sul valore simbolico per riconfigurare un nuovo modello di vita. Sta all'educatore organizzare gli spazi, i tempi, le attività, le relazioni interpersonali in modo che la loro funzione di rottura e di destrutturazione rispetto a moduli di vita consueti, si intrecci con la funzione strutturante e propositiva.
  • Il caso della custodia in carcere. Con il Nuovo Processo Minorile la misura della detenzione è riservata ai soli reati gravi e tende a essere evitata. In caso di carcerazione, l'educatore deve far fronte non solo a una sedimentazione di vissuti e abitudini pregresse dalle condizioni sociali, psicologiche e formative, ma anche alla ricaduta sul ragazzo della drammatica esperienza dell'arresto e della carcerazione (il ragazzo deve percepire l'educatore come una figura che gli offre nuove possibilità). 2. Partire dalla superficie per accedere al profondo Il valore dei primi interventi consiste nel preparare il terreno all'intervento rieducativo vero e proprio, quello cioè che mira ad una ricostruzione radicale della visione del sé e del mondo. Se si vuole che il ragazzo possa compiere delle nuove e autentiche esperienze esistenziali capaci di riorientare la soggettività è necessario fornirgli i mezzi per poter compiere quelle esperienze e liberarlo da quelle carenze e quelle dipendenze che costituiscono gli ostacoli nel percorso formativo (importante è l'ambiente educativo).
  • Il valore di una profezia: trasformare l'immagine. L'apparizione non sempre è indifferente all'essere e questo non solo per la sua funzione specchio ma anche perché innesca un meccanismo di adeguazione continua del soggetto alla maschera con cui si presenta agli altri (profezia autoadempientesi).
  • Stare con gli altri: i primi momenti di un cambiamento possibile. Spesso è necessario scalfire certe modalità di relazione che sono ormai talmente sedimentate e pervasive da ostacolare sensibilmente la possibilità di instaurare nuovi rapporti con gli altri, scenario fondamentale del percorso educativo. In caso di relazioni che impediscono la costruzione dell'intervento educativo è necessario applicare strategie per mettere un accordo intersoggettivo minimo. L'educatore dovrà pensare ad attività che implichino un'interazione con cui i ruoli del sé e dell'altro siano già strutturati in modo simmetrico ed equilibrato (l'interazione porta a esiti positivi). 3. Un richiamo alla sistematicità L'intervento educativo richiede fin dall'inizio un approccio sotto il segno della sistematicità; l'individuo è un sistema aperto che comporta che ogni disturbo e ogni azione riparativa non avranno una ricaduta solo su scala locale ma faranno presa sulla globalità del soggetto. Ogni azione, ogni gesto, ogni parola dell'educatore non consuma i suoi effetti su una sola dimensione del ragazzo (affettiva, cognitiva, motoria). Nel caso in cui l'educatore ritiene prioritario focalizzare alcuni aspetti della formazione del ragazzo, egli deve mantenere vigile la consapevolezza dei suoi interventi educativi per controllare la ricaduta della sua azioni sulle dimensione al momento non considerate rilevanti. I passaggi da fare nella rieducazione: - osservazione entropatica
  • destrutturazione di abitudini comportamentali sedimentate
  • ristrutturazione di nuovi modi di relazionarsi con sé e mondo Queste non sono fasi distinte o pratiche educative diverse, ma i significati fondamentali a cui l'educatore deve fare riferimento nelle concrete azioni rieducative.

LA DILATAZIONE DEL CAMPO DI ESPERIENZA

1. Nuovi orizzonti di senso Il punto comune dei ragazzi difficili è la notevole ampiezza di esperienza. Il soggetto è cresciuto troppo in fretta, ha affrontato esperienze sproporzionate alla sua età e ciò avrebbe comportato quel disorientamento della personalità responsabile del suo comportamento antisociale. È necessario centrare la rieducazione sulla dilatazione del campo di esperienze, ossia sulla costruzione delle condizioni che possono provocare un ripensamento del mondo e della propria collocazione in esso. 2. Verso l'ottimismo esistenziale: le strategie pedagogiche indirette I limiti dell'attività intenzionale dei ragazzi difficili possono essere essenzialmente ricondotti a due tipi: l'assenza di intenzionalità e la distorsione dell'intenzionalità; esse sono diverse, ma tutte e due provocano nel ragazzo un'idea di nullità, di impotenza di sé di fronte al mondo. Un obiettivo fondamentale della rieducazione è la costruzione di un ottimismo esistenziale, cioè quel senso di appagamento nato dal pensarsi all'origine di un progetto di investimento capace di realizzarsi attraverso una pratica di negoziazione di senso con gli altri. L'ottimismo esistenziale si fonda su pratiche di restituzione: è indispensabile colmare ogni carenza (affettiva, materiale, formativa) del ragazzo, fargli incontrare figure adulte che colmino i suoi bisogni affettivi e individuare un percorso che gli dia una serie di gratificazioni. 3. L'educazione al «bello»: una strategia diretta Una delle strategie più efficaci per giungere ad un consolidamento progressivo dell'ottimismo esistenziale, consiste nel far compiere al ragazzo un certo numero di esperienze centrate sul bello e capaci di favorire la costruzione di un vero e proprio senso estetico. Una caratteristica ricorrente dei ragazzi difficili è una sorta di sordità al bello, dovuta a una totale assenza di esperienze di questo tipo nella loro vita. Frequentare mostre, musei, gallerie rischia di produrre indifferenza del ragazzo, che non ha ancora elaborato nessuno schema interpretativo di questo tipo di bellezza. L'educazione estetica deve partire dai modelli cognitivi di cui il ragazzo è già in possesso e con cui abitualmente inquadra in mondo (senso di avventura, il fascino dell'imprevisto). In questo senso è possibile prevedere un percorso che partendo da esperienze del bello naturale (gite in montagna, sport) giunga al bello artistico. Da queste esperienze, il ragazzo non avrà tanto introiettato una lista di cose belle quanto la capacità di esercitare un giudizio sul reale.

  • Il valore cognitivo dell'educazione al bello. La visione univoca di un momento che sembrava avere sempre lo stesso volto e lo stesso significato può cominciare a frantumarsi da qui lasciando spazio a una prospettiva sui significati del mondo centrata sul possibile. L'esposizione a varie esperienze estetiche diverse tra loro è un principio metodologico fondamentale: non si tratta di fissare nella mente del ragazzo una serie di cose belle, né di imporgli un sistema di classificazione della realtà, ma si tratta di fargli sperimentare la possibilità di emettere un giudizio. Il ragazzo scopre l'aspetto soggettivo dell'attribuzione di senso al mondo e si scopre all'origine del processo di significazione. In seguito, il ragazzo sperimenta il processo di costruzione intersoggettiva della conoscenza, cioè cercare un'idea comune dall'accostamento di punti di vista altrui (discussioni polemiche per difendere la propria tesi). Le esperienze del bello non hanno solo una ricaduta sul piano cognitivo ma anche su quello della socializzazione.
  • Intrecciare le esperienze. È poco producente una selezione definitiva del tipo di esperienze da presentare al ragazzo, ma è conveniente suggerigli percorsi che incrocino vari tipi di esperienza, per offrirgli un'intera visione del mondo.
  • Il valore esistenziale dell'educazione al bello. La bellezza non è uno stato del mondo ma uno schema imposto da una situazione in cui ci si trova coinvolti, quindi la possibilità di incontrare cose belle è infinita, e il ragazzo può avere una ricaduta in termini di gratificazione e appagamento.

dipendenza. I gruppi che si formano spontaneamente tra i ragazzi non sempre assumono la configurazione di un contesto formativo rispondente allo scopo (l'educatore infatti deve guidare la formazione del gruppo). Qualunque sia l'attività prescelta per mettere in moto il dispositivo della vita di gruppo, ciò che conta è che essa si trasformi in un mondo in comune, in un piccolo universo condiviso e costruito dall'essere e dal fare insieme

  • Dimensione dei gruppi e obiettivi formativi. Dalla dimensione del gruppo dipendono le dinamiche interpersonali che tenderanno ad innescarsi tra i ragazzi. Nei piccoli gruppi (5- ragazzi) tendono a stabilirsi rapporti faccia-a-faccia, scambi centrati su forme di confidenza e di intimità che possono scivolare in rapporti diadici (sentimenti di solidarietà, reciproco aiuto). I grandi gruppi (più di 10 ragazzi) tendono a sviluppare delle gerarchie interne fondate sulla distribuzione di ruoli e di potere che spesso annullano qualunque forma di comunicazione e conoscenza reciproca tra i ragazzi. L'educatore deve regolare la costruzione del gruppo (tenendo sottocontrollo sia la dimensione che l'interna distribuzione dei ruoli). 6. Educare con l'avventura Le strategie educative fin qui proposte (educazione al bello, al difficile, all'altro) si connettono tutte ad un unico nucleo centrale: la dilatazione del campo di esperienza del ragazzo difficile. Centrare l'intervento rieducativo su questa proposta significa assumere il valore formativo di un'educazione al possibile (possibilità di essere diversi per lui). Il valore pedagogico delle esperienze di avventura sta nella loro forza destrutturante di vissuti cristallizzati, ma perché esse mantengano questo valore è necessario che conservino il tratto dell'eccezionalità che le distingue dalle esperienze educative ritagliate nella quotidianità. Rompere con la consuetudine non significa perdere il quotidiano ma costruire nuovi schemi per fare i conti con esso.

LA FIGURA E IL RUOLO DELL'EDUCATORE PROFESSIONALE

1. Essere «esperienza dell'altro» Predisporre delle situazioni in cui il ragazzo possa sperimentare il valore dell'essere con gli altri è una delle strategie centrali dell'educazione dei ragazzi difficili. L'educatore non è mai puro esecutore di un processo esecutivo, tecnico che dispone situazioni e controlla le variabili in gioco restandone al di fuori, ma è parte costitutiva di quel sistema. 2. Le strategie pedagogiche di tipo relazionale

  • La disponibilità. Molto spesso i disturbi della capacità intenzionale dei ragazzi difficili possono essere ricondotti a particolari interpretazioni di alcune pregresse esperienze con il mondo degli adulti. Lo schema semplificato di percezione dell'altro nasce in genere dal fatto di non avere incontrato figure di adulti suscettibili di una diversa interpretazione. L'incontro con l'educatore è un'occasione che il ragazzo ha per sperimentare che l'adulto può anche essere diverso. Il primo obiettivo dell'educatore professionale è quello di far capire al ragazzo quanto sia inutile e infondata la sua diffidenza. Per molti ragazzi difficili, l'incontro con l'educatore è la prima esperienza di incontro con un adulto che si rivolge loro non per individuare e sanzionare un comportamento, ma per comprenderne le ragioni (l'educatore non deve parlare al ragazzo del suo comportamento antisociale e deve cercare di soddisfare tutti i suoi bisogni). L'atteggiamento pedagogico di disponibilità deve prevedere delle soglie oltre le quali la comprensione e l'appoggio rischiano di trasformarsi in una legittimazione non solo del comportamento del ragazzo ma anche di quel modo di intendere il mondo da cui quel comportamento ha origine (coinvolgimento personale e distanza pedagogica).
  • L'autorevolezza. Il ruolo dell'educatore non si esaurisce nell'orchestrare l'ambiente e le esperienze in modo che esse assumano la forma e la funzione del principio di realtà, ma egli deve proporre se stesso presentandosi come persona autorevole. Il ragazzo deve ogni volta

sperimentare che adeguare il suo comportamento alla regola è un modo di agire conveniente prima di tutto per lui.

3. Il linguaggio delle cose concrete Ci sono molti modi con cui l'educatore può manifestare al ragazzo la sua disponibilità e la sua autorevolezza. Può scegliere la strada del discorso, della pura dichiarazione verbale o impegnarsi in un linguaggio delle cose concrete (azione e esperienze quotidianamente condivise con il ragazzo). Dichiarare la propria disponibilità durante il colloquio, attraverso enunciati del tipo «puoi contare sempre su di me», è in genere un approccio che non fa alcuna presa sul ragazzo: perché il messaggio venga colto è indispensabile che l'educatore metta in scena la sua disponibilità attraverso il comportamento, le azioni, i gesti che compie e le parole che pronuncia nella concretezza della vita quotidiana. 4. Essere esempio di intenzionalità Qualunque sia il livello di consapevolezza dell'educatore, il suo modo di agire si trasforma per il ragazzo in un modello di relazione con gli altri e con le cose. Il punto non è quello di sostituire ad una visione del mondo distorta la visione del mondo di cui l'educatore è portatore ma di comunicare al ragazzo l'idea che il mondo, se stesso e gli altri possono essere diversi da come egli li ha percepiti fino a quel momento. Testimoniare la continua interpretabilità del mondo e le possibilità inscritte nella negoziazione intersoggettiva dei significati attribuiti alle cose sono tecniche pedagogiche che, insieme alla dilatazione del campo di esperienze, sollecitano il ragazzo a ripensare il suo modello di percezione della realtà. 5. Il transfert pedagogico Le strategie pedagogiche di tipo relazionale in genere attivano nei ragazzi delle risposte emotive piuttosto forti, che costituiscono il segno che le strategie di comunicazione e di animazione adottate dall'educatore hanno provocato una messa in discussione degli abituali schemi di comportamento del ragazzo. La costruzione di quello che può essere definito transfert pedagogico è un momento centrale nell'educazione dei ragazzi difficili; ad esso è affidato il passaggio dalla rottura degli abituali schemi di relazione alla costruzione di un nuovo schema centrato sulla capacità intenzionale.

  • Transfert pedagogico e identità sessuali. Per trasformare in transfert pedagogico un investimento affettivo spontaneo dipendono anche le identità sessuali dei soggetti coinvolti nella relazione. I segnali di legame che testimoniano l'esistenza di una relazione significativa tra educatori e ragazzi dello stesso sesso sono diversi da quelli messi in atto di fronte a persone dell'altro sesso. La presenza di educatori di ambo i sessi nei servizi per minori è un'importante variabile istituzionale capace di attivare nei ragazzi la capacità di tarare stili relazionali e modalità comunicative in funzione della peculiarità dell'interlocutore (esperienza pedagogica dell'altro).
  • Ambiguità e rischi del transfert pedagogico. I rischi implicati da una gestione non professionale del transfert sono notevoli (relazione sentimentale tra educatore e ragazzo, comportamenti di pura compiacenza)
  • La gestione pedagogica del transfert educativo. La dimensione fortemente affettiva che lega educatore e ragazzo fa sì che le proposte dell'educatore vengano accolte dal ragazzo con entusiasmo. Ciò rende più facile la messa in atto della strategia della dilatazione del campo di esperienza. L'intrinseca oscillazione del transfert tra rischi e possibilità formative, può essere contenuta attraverso tecniche specifiche (collettività a due, fare insieme). L'inserimento del ragazzo in un gruppo fa si che si instaurino relazioni affettive tra pari e che il legame con l'educatore non assuma il carattere di un rapporto privilegiato, esclusivo.

5. Pensarsi nel futuro I processi di cambiamento e di sviluppo che costituiscono un'esperienza educativa pedagogicamente legittimabile si svolgono lungo l'asse temporale orientato al futuro. Nei casi di ragazzi difficili la cui visione del mondo è centrata sulla nullità del sé risulta difficile che essi riescano a collocarsi come attori protagonisti del proprio futuro: l'unico universo rilevante è il presente. L'educazione dei ragazzi difficili è orientata a un futuro che è e deve essere aperto al possibile. Il ragazzo deve partecipare alla scelta delle soluzioni per il suo futuro: la funzione dell'educatore non è quella di presentare al ragazzo progetti già confezionati ma di suscitare in lui un pensiero di se stesso nel futuro e di provocarlo a mediare continuamente istanze soggettive e vincoli reali. Per individuare gli scopi del proprio agire e per delineare un progetto volto a conseguire quegli scopi, un individuo deve possedere un modello operativo della realtà e una certa conoscenza delle proprie potenzialità e dei propri limiti, cioè deve disporre di una serie di informazioni che gli permettano di fare previsioni. È necessario che il progetto rieducativo previsto per ciascun ragazzo sia estremamente flessibile rispetto alla questione tempo: è opportuno che la durata dell'intervento rieducativo sia tarata sul tempo necessario a ciascun ragazzo per maturare la capacità di proiettare la sua esistenza nel futuro.