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"PSICOLOGIA DELLE ORGANIZZAZIONI" (Nuova edizione), Dispense di Psicologia del Lavoro

Riassunto del libro "Psicologia delle organizzazioni" di Argentero e Cortese. CAPITOLI 1,2,3,5,8,9,10,11,15,16,17

Tipologia: Dispense

2022/2023

In vendita dal 20/04/2023

Elisa.sgv
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PSICOLOGIA DEL LAVORO E DELLE
ORGANIZZAZIONI
CAPITOLO 1. PSICOLOGIA DEL LAVORO: SVILUPPO DELLE ORGANIZZAZIONI
La parola organizzazioni fa parte del nostro background sin dall’inizio, infatti, come umani siamo nati e cresciuti in
contesti organizzativi, ma spesso ne percepiamo la loro esistenza per difetto, quando qualcosa non funziona.
Lo sviluppo umano è un processo che dura per tutta la vita e implica una serie di adattamenti e di interazioni che
sono oggetto di varie discipline, come la sociologia, l’economia e le scienze giuridiche e politiche. Queste però
optano per una ricostruzione oggettiva e in terza persona dei fatti organizzativi, mentre la psicologia, che
collabora con queste discipline, considera la dinamica relazionale come punto cardine delle organizzazioni,
puntando all’analisi dei contesti sociali. In altre parole, potremmo dire che il contributo significativo della
psicologia applicata alle organizzazioni è proprio quello di prendere in considerazione la dimensione concreta
dell’attore sociale, cioè i comportamenti dei singoli attori, oltre alla visione d’insieme.
La parola organizzazione contempla vari significati e spesso ambigui e comunemente usiamo questo termine per
descrivere sia le forme di attività processuale con cui ci confrontiamo, sia i contesti che si caratterizzano a priori
come produttori di tali attività.
“l’organizzazione del seminario non era adeguata” / “l’università italiana è un’organizzazione storicamente poco
aperta al confronto con il modo del lavoro”
Più nel dettaglio, il termine organizzazione viene usato in una doppia accezione:
Denota il modo in cui le varie parti di un ente sono dinamicamente connesse e coordinate tra loro. In
questa accezione il termine possiede un campo semantico vastissimo (organizzazione domestica, del lavoro,
di un viaggio…)
Denota una determinata categoria di enti sociali fondati sulla divisione del lavoro e delle competenze
(imprese economiche, amministrazioni pubbliche, partiti politici, associazioni sportive…). In questo senso,
sono oggetto di discipline come la teoria d’impresa, il comportamento organizzativo, la sociologia e
psicologia delle organizzazioni.
La psicologia delle organizzazioni è una disciplina relativamente recente e infatti è nel corso dell’ultimo secolo che
si è sviluppato un ambito di indagine sulle condizioni e i comportamenti che hanno caratterizzato gli uomini nei
loro contesti produttivi, definiti da Katz e Kahn, luogo privilegiato d’indagine dei fenomeni del contesto strutturale
e organizzativo (il lavoro nelle nuove forme industriali, negli ospedali, nei servizi socioassistenziali…). Contesti che si
sono definiti nel XIX con la Rivoluzione industriale, ma ai quali è stata rivolta attenzione, per quanto riguarda gli
aspetti psicologici, solo nella seconda metà del ‘900. Possiamo dire, inoltre, che la disciplina, storicamente dipende
dall’intreccio di due prospettive:
Dell’indagine psicologica sull’attività di lavoro, individuale o di gruppo
Quella orientata alla comprensione del lavoro delle persone nelle nuove condizioni dell’industrializzazione
moderna (psicologia industriale)
Naturalmente, le varie associazioni nati nell’ambito della psicologia delle organizzazioni, sono orientate secondo
le aree culturali e il contesto storico particolare:
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PSICOLOGIA DEL LAVORO E DELLE

ORGANIZZAZIONI

CAPITOLO 1. PSICOLOGIA DEL LAVORO: SVILUPPO DELLE ORGANIZZAZIONI

La parola organizzazioni fa parte del nostro background sin dall’inizio, infatti, come umani siamo nati e cresciuti in contesti organizzativi, ma spesso ne percepiamo la loro esistenza per difetto, quando qualcosa non funziona. Lo sviluppo umano è un processo che dura per tutta la vita e implica una serie di adattamenti e di interazioni che sono oggetto di varie discipline, come la sociologia, l’economia e le scienze giuridiche e politiche. Queste però optano per una ricostruzione oggettiva e in terza persona dei fatti organizzativi , mentre la psicologia, che collabora con queste discipline, considera la dinamica relazionale come punto cardine delle organizzazioni, puntando all’analisi dei contesti sociali. In altre parole, potremmo dire che il contributo significativo della psicologia applicata alle organizzazioni è proprio quello di prendere in considerazione la dimensione concreta dell’attore sociale, cioè i comportamenti dei singoli attori, oltre alla visione d’insieme. La parola organizzazione contempla vari significati e spesso ambigui e comunemente usiamo questo termine per descrivere sia le forme di attività processuale con cui ci confrontiamo, sia i contesti che si caratterizzano a priori come produttori di tali attività. “l’organizzazione del seminario non era adeguata” / “l’università italiana è un’organizzazione storicamente poco aperta al confronto con il modo del lavoro” Più nel dettaglio, il termine organizzazione viene usato in una doppia accezione :

  • Denota il modo in cui le varie parti di un ente sono dinamicamente connesse e coordinate tra loro. In questa accezione il termine possiede un campo semantico vastissimo (organizzazione domestica, del lavoro, di un viaggio…)
  • Denota una determinata categoria di enti sociali fondati sulla divisione del lavoro e delle competenze (imprese economiche, amministrazioni pubbliche, partiti politici, associazioni sportive…). In questo senso, sono oggetto di discipline come la teoria d’impresa, il comportamento organizzativo, la sociologia e psicologia delle organizzazioni. La psicologia delle organizzazioni è una disciplina relativamente recente e infatti è nel corso dell’ultimo secolo che si è sviluppato un ambito di indagine sulle condizioni e i comportamenti che hanno caratterizzato gli uomini nei loro contesti produttivi, definiti da Katz e Kahn, luogo privilegiato d’indagine dei fenomeni del contesto strutturale e organizzativo (il lavoro nelle nuove forme industriali, negli ospedali, nei servizi socioassistenziali…). Contesti che si sono definiti nel XIX con la Rivoluzione industriale , ma ai quali è stata rivolta attenzione , per quanto riguarda gli aspetti psicologici , solo nella seconda metà del ‘900. Possiamo dire, inoltre, che la disciplina, storicamente dipende dall’intreccio di due prospettive:
  • Dell’indagine psicologica sull’attività di lavoro, individuale o di gruppo
  • Quella orientata alla comprensione del lavoro delle persone nelle nuove condizioni dell’industrializzazione moderna (psicologia industriale) Naturalmente, le varie associazioni nati nell’ambito della psicologia delle organizzazioni, sono orientate secondo le aree culturali e il contesto storico particolare:
  • In Europa à European Association of Work and Organizational Psychology
  • In USA à Society for Industrial and Organizational Psychology Notiamo immediatamente come accanto al termine organizzazione, abbiamo le due dimensioni costitutive: comportamento del lavoro e Rivoluzione industriale. Nell’associazione europea, prevale il termine “attività del lavoro”, proprio perché in Italia e Francia si è sviluppata, nel corso del ‘900, la psicologia del lavoro (in Italia prima era psicotecnica, poi psicologia del lavoro). La psicologia delle organizzazioni nasce proprio dalle esigenze per le quali è stata applicata nel mondo industriale e a questo processo è dovuto l’intreccio tra alcune forme della psicologia scientifica e l’esigenza pratico-gestionale di conoscere velocemente le caratteristiche individuali di un numero consistente di persone, che l’industria moderna deve poter gestire in ruoli differenti ma interconnessi. Il processo trova la prima applicazione in assoluto all’interno dell’organizzazione scolastica francese , dove Binet , costruisce una prima scala di misurazione delle performance intellettive. L’obiettivo era infatti quello di migliorare la didattica, costruendo classi omogenee per competenza base degli allievi. Dopo qualche anno, il processo venne applicato all’interno di un’organizzazione molto potente: l’esercito , sotto pressione per l’imminente inizio della Prima Guerra Mondiale. Nonostante la selezione non fu terminata per la fine della guerra, l’effetto dell’operazione fu enorme in tutto il Paese. Nasce nel 1917 il Journal of Applied Psychology (la più antica rivista di psicologia del lavoro e delle org) e il primo articolo si interroga proprio sul contributo che la psicologia potesse fornire ai diversi campi dell’attività umana per aumentare l’efficienza e la realizzazione dell’uomo. Dopo il contesto scolastico e l’esercito, gli strumenti di analisi differenziale trovano ampia diffusione, come strumento aggiuntivo, nel contesto industriale e nell’organizzazione stessa del lavoro nelle grandi fabbriche. Il questo nuovo contesto individui e le loro attività vengono considerate come variabili di un sistema produttivo complesso, il cui buon funzionamento non può prescindere da queste variabili. Ovviamente, sono passati cent’anni da queste applicazioni e l’evoluzione della cultura psicologica può essere descritta guardando le forme attraverso cui è stata considerata la variabile della condotta individuale. Da una visione ingegnerizzata e meccanica del processo manageriale si è passati a riconoscere la centralità strategica della motivazione e della realizzazione individuale , divenute prime protagoniste. Alcuni autori che hanno fatto parte di questo processo sono stati Taylor, Weber, Simon e accanto a questi si sono sviluppate teorie descrittive dei comportamenti dei membri delle organizzazioni con al centro l’analisi della motivazione, dei sentimenti, dei valori e gli interessi dei singoli. Citiamo il celebre esperimento di Mayo presso le officine Hawthorne. Altre teorie hanno descritto i bisogni di stima e realizzazione e la risposta che può essere data dall’organizzazione e altre ancora, che si sono occupate delle organizzazioni come sistemi, delle strategie perseguite dagli attori organizzativi e della cultura organizzativa. Per riassumere, il focus è stato il passaggio dalla meccanicità della descrizione astratta del sistema produttivo dove consideriamo la dimensione economica, alla variabilità propria delle condotte , le quali devono comunque orientarsi a uno scopo comune per ottenere risultati di eccellenza. LO SCENARIO CONTEMPORANEO Il mercato del lavoro globale è in continua evoluzione e tra i principali cambiamenti abbiamo un’imponente crescita dell’atipicità contrattuale , in Europa e in Italia. La psicologia del lavoro e delle organizzazioni si è occupata delle possibili conseguenze a un livello sia personale che organizzativo. I contratti atipici sono stati introdotti indubbiamente con l’obiettivo di contrastare la disoccupazione ma non sempre garantiscono livelli adeguati di sicurezza lavorativa. È soprattutto il senso di precarietà, che emerge in ambito lavorativo, a pervadere la sfera personale e famigliare, tant’è che possiamo parlare di precarietà di vita = sindrome che interessa i lavoratori atipici poiché se percepiscono la propria condizione come temporanea e instabile, possono avere difficoltà a progettare la propria vita, con conseguenze emotive che influenzano negativamente l’agire quotidiano. Tale sindrome è composta da tre dimensioni:

i segni della decadenza e in poco tempo si trovano fuori dalla competizione. All’instabilità della domanda si aggiunge quindi l’incertezza e la sempre maggiore complessità dei prodotti-servizi, nonché l’esigenza di risposte adeguate. In aggiunta, la maggiore apertura dei mercati produce effetti sia sulla domanda che sull’offerta. Rispetto alla domanda, l’apertura dei mercati ha portato ad una standardizzazione dei bisogni e quindi estendere la dimensione del mercato a tutto il mondo, mettendo in crisi le particolarità locali la cui unica soluzione e la riqualificazione dell’offerta tecnologica del prodotto-servizio. Indubbiamente le organizzazioni italiane, in particolare quelle pubbliche, sicuramente competitive mostrano una certa resistenza nell’adottare tecnologie gestionali più adeguate (probabilmente determinata dai costi). Questa resistenza sembra minacciare anche la sostenibilità dello sviluppo competitivo. Si definisce sostenibile la gestione di una risorsa se prevede di utilizzare la risorsa senza intaccare la sua naturale capacità di rigenerarsi, in caso contrario la risorsa viene deteriorata e poi distrutta. Questo concetto è stato esteso all’intero sistema economico. Lo sviluppo è sempre stato associato alla crescita del PIL di uno Stato che misura la produzione di beni e servizi valutati ai prezzi di mercato. Un’interpretazione più equilibrata va a considerare lo sviluppo non solo in termini strettamente economici, ma anche quelli sociali (possibilità di accesso a un’istituzione qualificata ad esempio…). CAPITOLO 2. COMUNICARE E ORGANIZZARE Un'organizzazione non sarebbe altro che un intreccio di rapporti tra persone che si passano informazioni e si scambiano messaggi, cioè una rete di comunicazione in cui è preminente lo scambio di significati. Questa prospettiva critica quei modi di pensare per cui le organizzazioni sarebbero sistemi, tra i quali la comunicazione interviene in seconda istanza, accanto ad altri processi come la gerarchia e il controllo. Tuttavia, enfatizzare il carattere costitutivo del comunicare potrebbe oscurare altri aspetti come quello di permanenza, continuità e stabilità. CHIARIMENTI TERMINOLOGICI Possiamo pensare a un'organizzazione come a “un corso di decisioni e azioni” quando l'attenzione cade sulla circostanza materiale di una molteplicità di persone che agiscono insieme per perseguire scopi o risultati. Questo corso di decisioni e azioni si caratterizza come un divenire continuo che attraversa situazioni sempre diverse. In questo fluire perenne intravediamo delle costanti (persone, edifici e attrezzature…) e possiamo cogliere regolarità e ricorrenze. A questo punto, se l'attenzione cade sulla permanenza, sulla regolarità e sulla ripetizione possiamo usare il termine processo. I due termini - corso di decisioni e azioni e processo - designano un medesimo insieme di eventi ma segnalano la diversità di prospettive da cui eletto:

  • lettura come processo assume che all'interno degli eventi si dia una qualche regolarità e si manifesti intenzionalità da parte dei singoli attori. Quindi il risultato del corso di decisioni e azioni è generato anche dalle intenzioni dei singoli attori , cioè dalle molteplici interpretazioni in prima persona. LA COMUNICAZIONE NELLE ORGANIZZAZIONI: UNA PROSPETTIVA DI LETTURA Con il termine comunicazione intendiamo il passaggio di significati tra due o più attori o aggregati collettivi coinvolti nel processo. Comunicare serve il processo:
  • esplica una funzione di ordinamento (istituisce un ordine in base al quale considerare il flusso di eventi)
  • ne sottolinea gli aspetti di regolarità e permanenza Nella lettura come processo un aspetto rilevante per la comunicazione è il disegno organizzativo = modo in cui viene rappresentato l'insieme delle attività e delle relazioni proprie di un'organizzazione e ne descrive la fisionomia. Data una dimensione del disegno si può descrivere il flusso delle comunicazioni come se fosse dipendente da essa, ma come abbiamo detto questo modo di ragionare reifica le dimensioni del disegno e tratta la comunicazione come fosse una conseguenza del processo, piuttosto che un suo elemento costitutivo.

L'intreccio che la comunicazione concretamente assume, dice come le persone interpretano la gerarchia , cioè ordinano essi stessi il processo e questa funzione di ordinamento è sempre esercitata dagli attori che entrano nel corso di azioni pur tenendo conto dei fatti istituzionali (in questo caso il disegno organizzativo). Abbiamo due assunti molto generali che riguardano ogni processo organizzativo (indipendentemente dalla fisionomia) :

  • il processo volto a mettere insieme un prodotto si declina nel tempo
  • attori ed enti che partecipano hanno una collocazione variabile rispetto ai suoi contorni Sempre assumendo una lettura come processo , un altro aspetto da considerare riguarda il modo in cui i diversi aspetti e le diverse fasi del processo si influenzano reciprocamente. Ricordiamo che il corso di azioni comprende relazioni sia causali sia costitutive. Comunicare, come passaggio di significati, comporta sempre una relazione costitutiva (Se parlo con qualcuno per spiegargli cosa fare, parlare non causa ma costituisce lo spiegare) , ciò però non esclude che esista un rapporto tra comunicazione e agire strumentale che può assumere forme diverse. Vediamo due casi: il primo riguarda un capo che impartisce ordini a un dipendente sul da farsi. Il secondo concerne una campagna pubblicitaria di tipo istituzionale, il cui messaggio vuole fare sapere al pubblico che una certa azienda presta grande attenzione ai problemi ecologici.
  • Nel primo caso l’effetto sul corso delle azioni è diretto e immediato; nel secondo caso non si suggerisce in prima istanza un comportamento ma si mira a influenzare la reputazione dell’azienda e promuoverne l’identità.
  • Nel primo caso la comunicazione avviene tra due persone ed ha un esplicito carattere performativo e indipendentemente dalle tecnologie utilizzate è sempre di tipo uno a uno. Nel secondo caso chi comunica è un ente astratto e il destinatario non è univocamente individuato, è una moltitudine di persone. In questo caso, la trasmissione è affidata a particolari tecnologie concepite per diffondere messaggi, ovvero meccanismi di comunicazione di massa. Questo confronto ci aiuta a cogliere diversi elementi di differenziazione della comunicazione organizzativa:
  • Partecipanti alla comunicazione o In prima persona à si può comunicare in quanto singoli individui che si rivolgono ad altri singoli individui o In terza persona à si può comunicare per conto di un ente rivolgendosi ad altri enti o collettività § Enti e collettività possono avere un’estensione variabile à un ente può essere un’azienda oppure una sua parte (divisione) oppure un insieme di aziende (consorzio) § Il pubblico può essere costituito da tutti i cittadini oppure un segmento di essi o Circuiti misti à da una persona a una collettività e viceversa
  • (Lo scambio comunicativo può essere unidirezionale o bidirezionale)
  • Finalità o Comunicazione volta a influenzare il corso di azioni in maniera diretta o Comunicazione volta a modificare o ribadire significati che connotano un ente, cioè influenzare il corso di azioni in seconda istanza.
  • Strumenti che impiegano o Strumenti diretti caratterizzano la comunicazione in presenza, basati sul rapporto interpersonale o Strumenti indiretti , ovvero mezzi e tecnologie che permettono di moltiplicare i contatti rendendo il messaggio disponibile anche lontano.

Riguardo la comunicazione di raccordo in ingresso dobbiamo evidenziare tre aspetti che adempiono a una funzione di contenimento, accoglienza e contrattuale. Torniamo al paziente che si rivolge al CUP per fissare una prestazione. Il ricevente non sa effettivamente come comportarsi, cioè i suoi schemi cognitivi sono aperti all’informazione e a quegli aspetti della comunicazione che confermano o meno le sue attese. L’emittente si trova in una circostanza in cui sono di particolare importanza sia i significati trasmessi sia la loro sottolineatura relazionale. La risposta è prima di tutto di contenimento in quanto rivolta a orientare il nuovo arrivato e fornirgli tutte le informazioni utili. Queste non sono sicuramente quelle lacunose o burocratiche che vanno invece a disorientare e invitano a trasgredire. Comunicare per adempiere a questa finalità vuol dire, ad esempio, essere capaci di costruire in maniera preventiva i significati che orientano un campo di azione , ovvero anticipare, per quanto possibile, i bisogni informativi e le richieste dell’utenza, ma anche rendere facilmente disponibile l’informazione necessaria. Questo ovviamente non significa che ogni problema debba essere risolto prima che si manifesti ma semplicemente che anche di fronte all’imprevisto le esigenze dell’altro vengono prese in carico. A tal fine, è necessario conoscere l’utenza , ovvero l’organizzazione deve ricavare i propri criteri di ordinamento partendo da un’analisi approfondita della domanda. Infine, è opportuno che l’organizzazione sia presente in quanto fattori di efficacia e di efficienza sono la diffusione e la disponibilità tra operatori e utenti di una comune “ cultura di servizio ”. Nel momento in cui il cliente entra fisicamente in rapporto con l’unità operativa , la risposta diventa di accoglienza. Il paziente deve essere ricevuto, riconosciuto come persona e ci si deve porre in una situazione di scambio. Si tratta di un rapporto il più possibile simmetrico ( equità ). Questa fase iniziale solitamente si conclude con la stipulazione di un patto (funzione contrattuale) che deve essere il più possibile chiaro, trasparente ed equo. La funzione contrattuale deve essere esplicita, cioè proposta al cliente come un diritto e in quanto tale deve includere la massima qualità possibile. Rispetto a queste funzioni la tradizione è quella di ridurre la questione al piano comportamentale e risolta con l’addestramento relazionale (sorridere, salutare…) che può essere considerato ampiamente superficiale soprattutto in situazioni ad alto rischio e complesse (sanità). Nella comunicazione di raccordo la principale sfida è “creare un ambiente che comunichi”. Un peso ce l’hanno sicuramente lo spazio, gli arredi e i dispositivi. A monte deve esserci però l’impegno a disegnare percorsi che siano semplici e di facile circolazione organizzativa. Un altro aspetto importante è la capacità di gestire l’informazione , nel senso di saper individuare gli elementi essenziali e archiviarli in modo da averli a disposizione quando servono. La possibilità di mantenere nel tempo un rapporto con il cliente/utente è una delle funzioni proprie della comunicazione di raccordo in uscita , che adempie a una serie di compiti: innanzitutto vi è una funzione conoscitiva à attraverso uno scambio ripetuto e costante è possibile acquisire una conoscenza più approfondita del cliente e delle sue preferenze. Mantenere questo canale di comunicazione “ritagliato” sul cliente può servire anche a stimolare l’interesse, sollecitando la sua riconoscenza in risposta al sentirsi riconosciuto. Internet è ovviamente fondamentale per queste attività (e-mail, e-commerce…). Pensiamo al Customer related management (CRM) che si serve di internet per accumulare sapere sul cliente ma anche come strumento di interlocuzione personalizzata. Negli anni più recenti, l’attività di conoscenza e la profilazione è cresciuta notevolmente sicuramente grazie ai nuovi canali per la raccolta dei dati , ma anche per le nuove abitudini comunicative. Di fatto, sono gli stessi clienti/utenti a fornire informazioni, pensiamo alla pubblicazione su Instagram dell’ultimo acquisto fatto. C’è un’enorme mole di dati , facilmente disponibile e facilmente utilizzabile che può permettere addirittura di prevedere il c0mportamento. Cogliamo qui il rischio di come il perseguire la conoscenza del cliente possa trasformarsi in controllo o sorveglianza , e questo è sempre maggiore quando le persone non hanno consapevolezza circa l’uso che viene fatto dei dati. Poi, naturalmente chi decide di mettere in rete cuore e anima, non ha bisogno di sorveglianza e non c’è un potere che le sfrutta, si sfruttano da sé.

Quindi, la comunicazione di raccordo persegue l’obbiettivo di garantire la fidelizzazione della clientela e di massimizzare la qualità della relazione con il cliente. CIRCUITO D E LA COMUNICAZIONE INTERNA Vediamo innanzitutto la distanza tra singoli attori e processo. Possiamo parlare di perifericità perché l’attore: a) Cade sui confini temporali del processo b) È presente in maniera più o meno assidua all’interno del corso di azioni Nel contesto sanitario, un paziente attraversa il processo (entra ed esce) e vi risiede per un periodo di tempo circoscritto. Diverso è per medici e infermieri che vi trascorrono un’intera vita lavorativa. La marginalità è un'altra componente della distanza, che però non si esaurisce nelle sole condizioni della presenza. La marginalità ha a che fare con il rapporto dell’attore con il patrimonio di simboli e di significati , cioè l’intelaiatura istituzionale, che vanno a costituire lo specifico di una organizzazione. Sappiamo che qualunque processo aziendale ha una particolare fisionomia (fatta di regole, competenze, valori…) e la capacità dei vari attori di intervenire su di essa è assai diversa (al vertice discrezionalità, alla base della gerarchia regole come date). Quindi possiamo concludere che, la marginalità è tanto maggiore quanto minore è la possibilità di plasmare l’intelaiatura istituzionale. Ovviamente perifericità e marginalità non sono sempre correlate (dipendenti subalterni à poca perifericità, molta marginalità). Guardando però il rapporto dei singoli attori con il patrimonio di simboli e significati da una prospettiva differente, possiamo dire che se il coinvolgimento nel corso dell’azione è personalmente rilevante per l’attore allora è possibile che in qualche forma possa contribuire alla costruzione del processo stesso (dimensioni come attenzione, voglia di fare, appartenenza, commitment dipendono dalla quota di senso di cui è in grado di appropriarsi. Se la quota di senso è minima cercherà opportunità di coinvolgimento altrove…). Quanto detto finora riguarda da vicino la comunicazione, infatti è proprio grazie ad essa che all’interno di un’organizzazione vengono trasferiti, negoziati e costruiti i significati. In altre parole, è grazie alla comunicazione che gli attori esprimono l’intelaiatura istituzionale. La comunicazione serve il processo e sostiene la funzione di ordinamento. Comunicazione interna = comunicare per conferire senso all'agire organizzato e per motivare gli attori , oltre ad essere fondamentale nella pratica gestionale, all'interno dell'azienda. ß principali strumenti della comunicazione interna distribuiti su quattro livelli la cui successione può essere giustificata ricorrendo ad alcuni vettori (vedi sotto) Gradiente cronologico- evolutivo:

  • (antichi) sistema base e sistema della motivazione gerarchica rappresentano gli orizzonti tradizionali della comunicazione interna. Impianto minimo orientato alla stabilità e centralizzazione.

di più e l’organizzazione è tenuta a integrare anche componenti esterne à questo ha delle conseguenze anche sul piano della gestione, che si traduce in rapidità nel decidere e adeguarsi ai cambiamenti (just in time) e per riassumere rapidità e delega (= decentrare discrezionalità e snodi decisionali) sono due esigenze che esprimono forti richieste per la comunicazione à per favorire il funzionamento e sostenere la libertà e la creatività degli attori. Il sistema base tradizionale è inteso per alimentare e rinforzare una intelaiatura istituzionale per promuovere coesione e conformità. Il sistema per la circolazione delle innovazioni dovrebbe essere invece rivolto a sostenere la diversità in quanto volto al cambiamento. La comunicazione digitale e il mondo del mobile sono sicuramente funzionali a forme di comunicazione orientate a promuovere la velocità degli scambi e la circolazione di informazione tra interno ed esterno, ma possono anche contribuire al rischio di destabilizzazione dell’organizzazione. Allo stesso tempo, rendono possibile una maggiore partecipazione degli attori organizzativi e a rafforzare quindi il senso di appartenenza, accrescendo la motivazione e l’adesione agli obiettivi dell’organizzazione à a sostegno di questo processo bisogna trovare il giusto equilibrio tra la gestione dei flussi comunicativi e l’apertura verso le iniziative e l’autonomia operativa. Ovvio che la comunicazione non deve sfociare in obbligo o costrizione perché potrebbe essere fonte di stress lavorativo. IL CIRCUITO F E LA COMUNICAZIONE ESTERNA Semplificando, la comunicazione esterna tende ad essere identificata con la comunicazione finalizzata a promuovere sul mercato i prodotti dell’organizzazione a sostegno dell’attività. Rivolta quindi al cliente/utente e finalizzata ad accrescere il numero e il comportamento di acquisto e quindi veicolata attraverso i mezzi di comunicazione di massa à è una rappresentazione superficiale innanzitutto per quanto riguarda la riduzione della finalità esclusivamente alla promozione dei prodotti e poi perché richiede delle competenze specialistiche per essere realizzata efficacemente (vedi pag. 44). La comunicazione verso l’esterno si configura come un’attività altamente specialistica che necessita di competenze specifiche ed evolute, poco è lo spazio per l’improvvisazione. Si configura come un’attività sempre più strategica di regolazione tra domanda e offerta (=cruciale per la sopravvivenza dell’organizzazione)à si usa speso la parola comunicazione quale equivalente di “marketing”. La comunicazione è il risultato di un processo articolato che prevedere operazioni preliminari e successive all’atto comunicativo.

  1. Innanzitutto, bisogna conoscere i destinatari cui ci si vuole rivolgere per precisare gli obiettivi che si vogliono perseguire.
  2. Successivamente abbiamo la messa a punto del contenuto e della forma dei messaggi e la pianificazione rispetto ai canali della loro diffusione.
  3. Infine, abbiamo le attività di monitoraggio per verificare la corretta implementazione della comunicazione ma anche gli esiti raggiunti. Se in passato era sufficiente costruire comunicazioni semplici, incentrate sul prodotto e indifferenziate rispetto ai destinatari, veicolate dai canali di massa (broadcasting) dal produttore al consumatore à con il saturarsi della domanda diventa cruciale saper modulare l’offerta in funzione delle caratteristiche degli interlocutori (narrowcasting) in quanto non si può comunicare con tutti allo stesso modo, ma bisogna lasciarsi guidare dai destinatari per parlare con loro à la situazione odierna vede la comunicazione sempre meno incentrata sul prodotto, quanto sull’esperienze, dove il bene è sempre più caricato di significati relazionali. Si tratta di una comunicazione non più unidirezionale, ma lascia spazio a flussi pluriorientati, dove sono i destinatari a costruire il contenuto e il significato di beni e servizi, nel suo nuovo ruolo di prosumer = non solo consumatori ma anche produttori del bene.

In tutto questo processo, internet ha assunto e assume un ruolo chiave; oggi praticamente nessuna organizzazione non si presenta all’esterno attraverso un sito internet o non dispone di un sito internet à ancor più che un mero strumento di comunicazione, è il luogo di incontro tra organizzazione e pubblici secondo una modalità interattiva, dove la conversazione perdura nel tempo. È un luogo che oggi è abitato da nuovi personaggi, gli influencer, che grazie al loro essere popolari vengono coinvolti dalle aziende per la promozione dei loro prodotti. Di fatto sono abbastanza liberi nel decidere come comunicare i prodotti e quali immagini e commenti associarvi. Il rischio da parte dell’azienda è quello di perdere il controllo su quanto trasmesso con potenziali ricadute negative sulla propria immagine. Abbiamo già detto che l’oggetto principale di comunicazione sono i simboli, mediante i quali si rende riconoscibile al pubblico e si differenzia dalle altre organizzazioni à tutto ciò permette di costruire la propria identità, promuovendo la propria immagine. Ribadiamo anche il fatto che l’oggetto della comunicazione non sono le “cose”, quanto il brand, cioè l’immagine del prodotto attraverso i suoi connotati affettivi e razionali con i quali si vuole essere percepito dai destinatari. Il carattere più profondo della comunicazione esterna è però indubbiamente quello di costruire un legame di fiducia con gli interlocutori a garanzia del futuro. Le comunicazioni strategiche sono quelle intendono nel tempo consolidare, arricchire e migliorare l’immagine. Possiamo facilmente intuire come la cura della relazione e la ricerca di fiducia sono un importante tentativo di ridurre la distanza tra le parti e sollecitare la partecipazione degli interlocutori. Nulla ha a che fare con la comunicazione seduttiva che va invece ad esercitare una pesante pressione sul ricevente. In riferimento a Jakobson, il circuito seduttivo è quello in cui:

  • si cerca di indurre i destinatari a mettere in atto un certo comportamento (funzione conativa)
  • curando il contatto attraverso modalità a impatto (funzione fatica)
  • in cui ciò che viene presentato viene curato così da farne emergere la bellezza (funzione poetica)
  • l’emittente si espone molto proponendo la propria immagine come dotata di valore e sintonica con quella degli interlocutori (funzione espressiva) Un altro aspetto importantissimo è che il rapporto tra emittenti e destinatari è di identificazione di valori. In questo senso rispecchiamento e adattamento ai bisogni/desideri degli interlocutori sono strumenti fondamentali per il mantenimento del processo e la riproduzione dei rapporti. CIRCUITO G E LA COMUNICAZIONE D’ACCESSO Il circuito g è quello in cui la partecipazione diventa una richiesta esplicita dell’organizzazione ai suoi pubblici dove la finalità è quella di raccogliere informazioni sulla relazione o sui prodotti. Vediamo come in questo caso è l’organizzazione a porsi in ascolto (ricevente) nei confronti di un messaggio prodotto dal pubblico (emittente). Generalmente, questo circuito è associato a organizzazioni di servizi e in particolare alla Pubblica amministrazione, che adottano una comunicazione dal basso verso l’alto per migliorare il proprio funzionamento. Poi in realtà, ormai sempre più organizzazioni adottano questo circuito, pensiamo alla customer satisfaction. Sono due le forme principali in cui si concretizza la comunicazione di accesso:
  • PRIMA à singolo utente si rivolge all’organizzazione per esprimere un giudizio, per avanzare un reclamo o notificare un problema. Nella PA c’è proprio un ufficio per le relazioni con il pubblico, che ha come compito quello di informare, agevolare l’utilizzo del servizio e verificare la qualità e il gradimento (lo stesso può essere svolto dall’ufficio reclami di un’azienda). Sempre più spesso viene svolto mediante call center. Qua le funzioni sono quelle che abbiamo riportato nella comunicazione di raccordo, cioè contenimento, accoglienza e contrattuale.
  • SECONDA à rappresentata dalle indagini campionarie mediante le quali vengono raccolte le opinioni degli utenti

distintiva attraverso esperienze collettive di successo e questa è proprio la modalità attraverso cui le istituzioni elargiscono gratificazioni ai propri dipendenti e raggiungono integrazione. Selznick ha anticipato alcuni concetti che ritroviamo poi nell’approccio culturale à l’idea del carattere è assimilabile a quella di cultura organizzativa. Il carattere e i valori organizzativi fondano l’identità dell’organizzazione, ossia la percezione che ha di sé stessa e delle ragioni del suo esistere. La studiosa Linda Smircich ha cercato di ricostruire storicamente l’idea di cultura negli studi organizzativi e ha distinto tre modi di intendere la cultura:

  1. Variabile indipendente esterna all’organizzazione
  2. Variabile dipendente interna all’organizzazione
  3. Metafora di base (root metaphor) di ciò che è un’organizzazione (approccio culturale) I teorici che interpretano la cultura come variabile indipendente esterna sostengono che norme e valori sono costruiti dal contesto istituzionale e fatti propri dall’organizzazione attraverso processi di isomorfismo istituzionale = i sistemi di azione collettiva si omogeneizzano tra loro assorbendo pratiche consolidate. Le regole istituzionalizzate esterne vengono incorporate, ad esempio, in programmi per il raggiungimento degli obiettivi, sistemi per il miglioramento della qualità test di selezione del personale, facendo sì che le organizzazioni vengano ricompensate con risorse economiche e ottengano legittimità sociale. Ciò che questi autori chiamano “cerimonialismo istituzionale” coincide con il conformarsi delle organizzazioni a miti istituzionalizzati approvati nel contesto circostante. Accade quindi che la ridefinizione delle strutture formali assume le sembianze di un rito o tributo ideologico in cambio del vantaggio derivante dall’approvazione sociale, a scapito dell’efficienza e di un miglior coordinamento interno. Quando la cultura organizzativa viene concepita come variabile dipendente interna all’organizzazione, l’interesse si rivolge ad aspetti gestionali. In questo caso, la cultura è composta di miti e riti che se manipolati e mescolati, producono un circolo virtuoso: “aumento della motivazione individuale e della volontà di cooperare dei membri; coesione sociale interna e fedeltà diffusa dell’organizzazione; incremento dell’efficacia collettiva; ulteriore incremento della motivazione e coinvolgimento”. Se la cultura è intesa come metafora di base, a differenza dei due approcci precedenti, l’organizzazione non possiede cultura, ma è cultura. Ciò si esprime nel modo di interagire dei suoi membri, nel tessuto delle decisioni che sono prese e delle azioni che sono intraprese nella quotidianità della vita organizzativa à la cultura è assimilabile a una cornice di significati, in grado di dare un senso a ciò che accade nelle organizzazioni, è una metafora vivente ed è di base nel senso che include tutte le altre. È stata in particolare questa accezione ad attingere all’antropologia, che presenta al suo interno diversi approcci, molti dei quali ripresi negli studi organizzativi. Potremmo quindi sostenere che l’approccio culturale ha preso in prestito un insieme di concetti e categorie da altre discipline, in particolare dall’antropologia, senza elaborare un granché. A proposito di altre discipline, è interessante il contributo di Schwartz in chiave psicoanalitica (taglio Freudiano), dove spiega la crisi o il fallimento delle organizzazioni rifacendosi a processi collettivi di fissazione su posizioni narcisistiche. In particolare, in organizzazioni dominate dalla cultura del narcisismo, ha riscontrato personaggi che, collocati in posizioni di comando, perdono il contatto con il mondo reale e fanno scivolare l’organizzazione nella “fantasia della perfezione” e l’ideale narcisistico penetra in quelle attività fondamentali generando un circolo vizioso. CULTURA E CULTURE ORGANIZZATIVE La cultura organizzativa è quell’insieme di significati che racchiudono assunti, valori e credenze che un gruppo ha scoperto o inventato, imparando ad affrontare situazioni problematiche di adattamento all’ambiente esterno e di integrazione interna. Quegli assunti, valori e credenze trovano espressione nei comportamenti, nei linguaggi e negli artefatti materiali sedimentati. Shein giustamente ha sostenuto che non si può sostenere di essere in

presenza di una cultura se quei sistemi di significati, nel tempo, non vengono ritenuti validi e quindi trasmessi ai nuovi membri dell’organizzazione. Parliamo infatti di “interiorizzazione” di quel sistema, che è ciò che permette di orientarsi nell’organizzazione senza dover ogni volta trovare nuove soluzioni. Con il termine “cultura organizzativa” si vuole quindi sottolineare che i contesti di azione collettiva, presentano “un materiale predisposto a livello cognitivo, emotivo, etico ed estetico che rappresenta per chi entra a far parte di quella cultura, un ancoraggio, un punto di appoggio da cui è possibile prefigurare l’azione e orientarsi come una sorta di mappa, senza il timore di perdersi o di doversi costantemente interrogare sulla correttezza delle risposte (Piccardo). Una cultura ha la funzione di generare: a) Modelli cognitivi = permettono la categorizzazione e l’interpretazione di ciò che accade b) Modelli emotivi e affettivi = hanno ricadute sull’impegno e l’energia che i singoli sono disposti a spendere e sul senso di appartenenza c) La distinzione fondamentale tra chi è dentro e chi è fuori, chi sono gli amici e chi sono i nemici Perrow ci dice anche che un sistema ideologico costituisce la forma di controllo di terzo tipo (1. Gerarchia; 2. Programmi per raggiungere obiettivi) ovvero le premesse ideologiche, cioè l’insieme di valori condivisi che va verso una direzione, per la necessità interna di perseguire un bene. Troviamo una similitudine tra il concetto di cultura organizzativa e quello di comunità di pratica, ovvero l’importanza dei processi di socializzazione dei nuovi membri e l’idea di organizzazione come artefatto culturale, frutto di negoziazioni e costruzioni di significato. Differenze:

  • Gli studiosi delle culture organizzative si focalizzano su una singola organizzazione e sui prodotti culturali che ne delimitano i confini à attenti alle dimensioni comunitarie.
  • I teorici della comunità di pratica sottolineano l’importanza delle attività pratiche, in primo luogo quelle lavorative, il cui significato è stato anch’esso negoziato e condiviso.
  • Inoltre, una cultura organizzativa contiene al suo interno, potenzialmente, più comunità di pratica Non tutti gli autori la pensano come Schein interpretano la cultura come qualcosa di monolitico. Alcuni ricercatori ritengono che all’interno della stessa organizzazione possano convivere più culture, cioè sottoculture. Perché si formano? Molto probabilmente per la tendenza ad accostarsi a persone simili (occupazione, età, genere, identità sessuale…) favorita dal lavorare a stretto contatto. A livello teorico sono state distinte:
  • Sottoculture di sostegno a quella generale/dominante à in genere quella del vertice aziendale (=corporate culture).
  • Sottoculture che si oppongono a quella dominante (controcultura) à alimentano valori e credenze opposte alla corporate culture.
  • Sottoculture ortogonali a quella dominante à convivono con essa Tra gli studiosi che hanno interpretato la cultura in modo “multiprospettico” ricordiamo Martin, autrice che ha identificato tre paradigmi interpretativi con i quali ha letto la stessa organizzazione “OZ Company”:
  • Paradigma dell’interpretazione à descrive la cultura come un insieme di valori comuni, coerenti che si rinforzano reciprocamente e generano armonia, consenso diffuso e assenza di conflitti.
  • Paradigma della differenziazione à la cultura è percorsa da mancanza di consenso ed è abitata da sottoculture e controculture che traggono origine dalla diversa distribuzione del potere e dagli interessi in gioco.
  • Paradigma della frammentazione à mette in dubbio l’esistenza stessa della cultura, concentrandosi sugli aspetti di ambiguità, incoerenza e disordine che caratterizzano la vita organizzativa.

interazioni sociali e a beneficio di un pubblico, con conseguenze sociali importanti. Insiemi di riti originano le cerimonie (i rituali sono invece attività routinarie). Trice e Beyer e i riti più frequenti: o Riti di passaggio à segnano il transito a ruoli o status nuovi o Riti di esaltazione à motivano i membri della cultura a comportarsi come chi è stato premiato o Riti di degradazione à ridefiniscono potere dei soggetti e riaffermano l’importanza di alcune condotte o Riti di ricomposizione e contenimento dei conflitti à riducono il rischio di una escalation conflittuale, ma che non risolvono i problemi o Riti di integrazione à avvicinano le distanze tra i ruoli spesso separati da gerarchia o Riti di rinnovamento à si propaganda l’intenzione di avviare programmi di cambiamento

  • Artefatti = prodotti tangibili, concreti della vita organizzativa che hanno portato alcuni studiosi a concentrarsi sul setting fisico (forma edifici, arredi, decorazioni, fotografie, uniformi, design…). L’ipotesi è infatti che quanto più le credenze e i valori sono radicati, tanto più troveranno rispecchiamento nella fisicità dell’organizzazione per confermare l’identità ai soggetti e tramandare la cultura. Gagliardi à artefatti possono presentare: o Sentieri per l’azione = condizionare il comportamento o Tracce della vita organizzativa = testimonianza delle dinamiche culturali e sociali APPROCCIO ESTETICO
  1. Riporta in primo piano le sensazioni e i sentimenti degli attori
  2. Costringe il ricercatore a lasciar spazio a ciò che sente e prova, perché chi scrive etnografie necessita di essere immerso emozionalmente e sensorialmente per comprendere pienamente. Quindi l’approccio estetico trova nell’autoetnografia la forma espressiva più consona.
  3. Aiuta a cogliere aspetti che gli studi organizzativi trascurano in quanto incentrati su aspetti cognitivi e razionali. CAPITOLO 5 – GENERE E ORGANIZZAZIONE INTRODUZIONE I gender studies hanno cambiato il modo di pensare i luoghi di lavoro e aperto spazi di ricerca del tutto nuovi. Con l’espressione “ gender studies ” ci riferiamo all’a pproccio inter e trans-disciplinare, nato nel Nord America negli anni ’60 ed ha concentrato l’attenzione sui significati e sulle pratiche socioculturali della sessualità e dell’identità di genere. Il genere è costitutivo dello stare e del fare le organizzazioni. È un tema che non è sempre stato al centro degli studi in questo ambito e infatti, come ha notato Mary Jo Hatch quasi tutte le teorie organizzative hanno ignorato la questione del genere , sottendendone la dimensione di scarsa rilevanza. Le prime riflessioni possono essere fatte risalire a Kanter (1977), la quale metteva in evidenza che la negazione del genere comportasse l’adesione ad un modello organizzativo maschile. Solo negli ’90 il genere troverà ampio spazio nella letteratura organizzativa, con la nascita di riviste specializzate (Gender, Work and Organization). Indubbiamente, possiamo far risalire questo rinnovato interesse anche e soprattutto all’ingresso massiccio delle donne nel mondo del lavoro. A partire da questo momento, vengono aperte delle questioni ancora oggi trascurate, prima fra tutte la cosiddetta “ questione della doppia presenza ” che sta ad indicare la contemporanea presenze delle donne nella famiglia e nel mercato del lavoro, nel privato e nel pubblico… si erano rotti così i confini tra sfera professionale e sfera famigliare, e le donne, anche se impegnate in una occupazione esterna, cui dedicavano gran parte del loro tempo e delle loro energie, non riducevano significativamente il loro lavoro di cura della famiglia e della casa. A questo proposito, ancora oggi, le donne sono oggetto di discriminazione nel mondo del lavoro, proprio per le esigenze di tempo per la famiglia vissute dalle donne. Vediamo quali sono le discriminazioni di cui sono oggetto le donne nel mondo del lavoro:
  • Discriminazione verticale à quel fenomeno per cui viene ostacolato il raggiungimento dei più alti livelli nella carriera. Questo sarebbe determinato dal fatto che ricoprire un ruolo di questo tipo richiede molte ore fuori o lontano da casa.
  • discriminazione orizzontale à relegare le donne a certi tipi di professione, soprattutto nell'ambito dei servizi. Questo sarebbe causato dal fatto che, il lavoro svolto tradizionalmente in famiglia abbia determinato per le donne lo sviluppo di competenze relazionali e di cura. Per questo motivo non possiedono neanche le caratteristiche adeguate a svolgere un ruolo di leadership. Queste due forme di discriminazione vengono comunemente espresse come, rispettivamente, “soffitto di cristallo” e “terziarizzazione del lavoro femminile” (sex typing). Per terziarizzazione del lavoro femminile intendiamo quella segregazione occupazionale che vede le donne impegnate in segmenti professionali che offrono scarsa visibilità, scarso riconoscimento economico e sociale e poche possibilità di carriera. Si tratta di professioni di cura e servizio. Pensiamo alle badanti (ruolo attualmente ricoperto dalle immigrate), per cui l’unico elemento emancipatorio sarebbe quello di diventare “procacciatrici di reddito” per le famiglie lasciate in patria. Il soffitto di cristallo, invece, sta ad indicare una barriera resistente, che pur consentendo di vedere posizioni professionali più alte di fatto ne impedisce il raggiungimento a parità di titoli e competenze. Possiamo pensare alla difficoltà ad accedere alle posizioni manageriali. IL GENERE: UNA DEFINIZIONE Le definizioni sociali di genere sono situate nel tempo e nello spazio, diversificandosi da cultura a cultura: esiste una pluralità di modelli di genere. Secondo l’autrice Simone de BeauvoirDonna non si nasce, si diventa ”, c’è quindi una differenza tra “essere donna” ed “essere femmina” e non c’è necessariamente una connessione tra le due condizioni. Essere femmina, cioè appartenere a un certo sesso, è una condizione biologica ; essere donna, cioè appartenere a uno specifico genere, è una condizione determinata da aspetti sociali e culturali legati al contesto di riferimento. In sostanza, il sesso non fissa o almeno non dovrebbe, il suo destino sociale e la biologia non determina o non dovrebbe, le vite di donne e uomini. Il genere è frutto di interazioni sociali che riproducono relazioni di potere e subordinazione tra uomini e donne, ma è separabile dal ruolo biologico. Altri studi interessanti sono stati quelli di Gayle Rubin, la quale ha definito il sex-gender system : insieme dei processi, adattamenti, modalità di comportamento e di rapporti, con i quali ogni società trasforma la sessualità biologica in prodotti dell’attività umana e organizza la divisione dei compiti tra gli uomini e le donne, differenziandoli gli uni dalle altre: creando il “genere”. Anche in questa definizione ritroviamo l’aspetto della costruzione culturale del genere , quindi non si può dare per scontata l’identità di genere a partire dall’appartenenza biologica a un dato sesso. Inoltre, mette in evidenza il fatto che il termine genere, non si riferisce solo alle donne, ma all’insieme diadico di donne e uomini. Questo perché considerare il genere “una questione delle donne” ne priverebbe la sua ricchezza e infatti la riflessione sul genere nasce a partire dalla presa di coscienza della condizione di subordinazione del femminile rispetto al maschile, cioè non si può parlare di genere femminile se non in relazione a quello maschile. Inoltre, se il genere è una costruzione sociale a partire dal corpo sessuato, è solo nel confronto e nell’accettazione o nel rifiuto delle caratteristiche che l’identità di donne e uomini si definisce in qualunque ambito (famiglia, lavoro…). Gherardi ci dice che all’interno dei contesti di lavoro si riproducono, da un lato, rapporti di potere e subordinazione e dall’altro si perpetua nei confronti delle donne l’attribuzione di ruoli in base al genere, determinando discriminazioni in termini di carriera e retribuzione. Il genere è un elemento costitutivo delle organizzazioni , infatti, come ci dice Scott, è un elemento costitutivo delle relazioni sociali basato sulla differenza percepita tra i sessi, ma è anche una modalità primaria per attribuire significato ai ruoli di potere. A rendere le organizzazioni gendered sono cinque processi :

famiglia e dall'altro nel mercato del lavoro. All'uomo spetta il ruolo di procacciatore di reddito mentre alla donna quello di occuparsi della riproduzione e della cura in famiglia e con l'ingresso delle donne nel mercato del lavoro remunerato questa divisione dei ruoli è rimasta molto marcata e infatti alle donne vengono aperte le porte a professioni più vicine alla cura familiare (servizi). A questo proposito, Gherardi ci dice che le culture organizzative sono, per loro natura, gendered, cioè con una forte connotazione di genere che in larga maggioranza è quella maschile dato che le più importanti imprese sono state fondate da uomini. Le relazioni di disparità tra uomini e donne, che si esprimono nella segregazione verticale e orizzontale nel mercato del lavoro, sono riprodotte nella società più ampia, attraverso alcuni meccanismi specifici delle organizzazioni del lavoro. Tra questi meccanismi, Kmec ha identificato il “ metodo della staffetta ” che consiste nel reclutare chi deve ricoprire posizioni di responsabilità attraverso le cordate, individuando i candidati nella rete di contatti di chi già ricopre quella posizione (uomini avranno tra i loro contatti e altri uomini); la svalutazione dei lavori considerati tipicamente femminili che riduce il numero di uomini che desiderano ricoprirli; la desiderabilità legata alla retribuzione, alle opportunità di visibilità che offre e che sarebbe propria delle occupazioni per le quali si predilige un uomo. Riassumendo abbiamo due elementi cardine di questo approccio: la socializzazione ai ruoli di genere in famiglia e nella società , attraverso cui si stabiliscono comportamenti e ruoli professionali che vengono trasferiti poi nelle organizzazioni del lavoro; le pratiche più o meno consapevoli di azioni che contribuiscono a produrre e riprodurre una cultura gendered nelle organizzazioni e a trasferirla poi di riflesso nella società. Queste due dinamiche sono state definite da Martin gendering practices e practicing gender. Le prime costituiscono regole ed esempi di comportamenti che la cultura di una società mette a disposizione degli individui per esprimere l'appartenenza a un genere. La seconda è la dinamica attiva, performativa per cui attraverso l'agire e il parlare le persone contribuiscono a costruire e mantenere le relazioni e le strutture di genere. APPROCCIO PSICOANALITICO Freud propone un unico modello di sviluppo dell’identità sessuale che ha il suo momento centrale nel complesso edipico. Questo per gli uomini si risolve grazie alla paura della castrazione da cui si forma il Super-Io che consente il costituirsi di una personalità sana e adulta. Per le donne invece, lo sviluppo rimarrebbe incompiuto in quanto il complesso edipico porta alla consapevolezza della mancanza del pene e di conseguenza passività e debolezza morale. Le eredi di Freud invece hanno teorizzato lo sviluppo di un’identità femminile autonoma. Possiamo pensare a Chodorow che postula due percorsi di individuazione, uno per gli uomini e uno per le donne, a partire dalla relazione di dipendenza dalla cura materna nei primi mesi di vita. L’uomo nella formazione di sé sperimenta una doppia separazione dal corpo della madre, come individuo e come genere (assume come modello il padre); la donna vive un doppio movimento, una disidentificazione per diventare individuo autonomo e un’identificazione rispetto al genere, imparando a diventare soggetto capace di cura. Nicolson si rifà invece al complesso di Edipo e nello specifico alla “paura di castrazione” per gli uomini e alla “invidia del pene” (invidia per il potere che gli uomini hanno) per le donne. In sostanza, sarebbe la percezione della mancanza a determinare modalità diverse di esperire i contesti organizzativi e di muoversi all’interno. In base a questa teoria, gli uomini sarebbero incapaci di tollerare la possibile perdita del potere e quindi lottano per esso, creando strutture organizzative caratterizzate da una forte gerarchia con regole maschile, da cui sarebbero escluse le donne maggiormente portate a tollerare la mancanza (per la non soluzione del complesso edipico). Le donne metterebbero in atto due possibili reazioni: uscire dall’organizzazione giustificandosi con il desiderio di avere figli oppure accettare un compromesso, cioè rimanere e ricoprire solo alcuni ruoli accettandone valutazioni e riconoscimenti diversi. Questa seconda modalità determinerebbe una progressiva interiorizzazione dei valori della cultura organizzativa maschile: in alcuni casi si arriva a condividere che il ruolo principe della donna sia in famiglia, accettando ruoli di minore responsabilità o part-time; in altri casi si sceglie di investire nella carriera accettando le regole fissate dagli uomini (tempo in presenza, disponibilità a viaggiare e trasferirsi…). Capiamo bene che in una società in cui la responsabilità della cura familiare è ancora affidata alle donne, queste regole sono spesso insostenibili e incompatibili con l’avere una famiglia. Questo comporta una scelta, tra famiglia e carriera e spesso sono proprio le donne ad autolimitarsi nelle

scelte che potrebbero condurle a livelli più alti nella gerarchia. Le donne, interiorizzando questa identità di genere, tendono anche a percepirsi come prive di quelle qualità come la sicurezza in sé, assertività, aggressività che sono assolutamente necessarie in ruoli di responsabilità nelle organizzazioni regolate da logiche maschili. Se riconoscono di averle, invece, si sentono quasi in colpa per l’aver interiorizzato caratteristiche maschili. Una soluzione individuata da Nicolson sarebbe quella di introdurre logiche di maggiore flessibilità e orientamento alla relazione, per permettere a uomini e donne, di non dover compiere una scelta, anche perché le organizzazioni potrebbero beneficiare di una relazione di reciproco arricchimento, anziché di subordinazione. FASI E PROSPETTIVE DEGLI STUDI DI GENERE IN ORGANIZZAZIONE Possiamo identificare alcune fasi nei gender studies nell’ambito della teoria organizzativa:

  1. cecità nei confronti delle dinamiche di genere
  2. presa di coscienza delle discriminazioni di genere
  3. messa in discussione grazie al post strutturalismo e alla queer theory della dicotomia uomo-donna nei contesti organizzativi e apertura alla molteplicità. IL GENERE INVISIBILE Come ci dice Monaci, fino agli Sessanta, le donne erano entrate da pochi anni nel mondo del lavoro e ricoprivano ruoli di secondo piano. C’era quindi una cecità nei confronti del tema delle dinamiche di genere. Simpson e Lewis parlano di “ invisibilità ”: non vedere, e quindi accettare acriticamente, la cultura organizzativa maschile come norma, così radicata da non sentire il bisogno di tematizzarla. Le donne rappresentano di fatto l’eccezione a questa norma, ma renderla visibile e ciò che consente di metterla in discussione, aprendo alla possibilità che esistano altre logiche altrettanto condivisibili. Questo è ciò che apre alla seconda fase degli studi di genere in organizzazione, in cui si inizia a dare voce a chi si trova ad essere escluso. RICONOSCIMENTO DELLA DIFFERENZA La presenza delle donne in organizzazione diventa un oggetto di riflessione solo tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta , in seguito ad alcuni cambiamenti:
  • presa di coscienza della sempre crescente presenza femminile nei contesti organizzativi e delle loro potenzialità
  • si ritiene che le donne possano offrire risposta a due emergenze : una era la previsione di una riduzione della forza lavoro maschile; un’altra era la crescente competitività in un mondo globalizzato per cui si potevano “utilizzare” nuove risorse portate dalle donne
  • le donne , consapevoli della loro qualificazione e delle loro competenze iniziarono espressamente a chiedere posizioni di maggiore responsabilità à prendono coscienza della segregazione verticale e orizzontale e non sono più disposte ad accettarla. Le studiose e gli studiosi dell’approccio sociologico hanno cercato di indagare i meccanismi alla base di tale discriminazione e le conseguenze che ne derivano, in termini di trattamento economico e prestigio: il metodo della staffetta, criteri di selezione in ingresso e per la crescita professionale basata sulla quantità di tempo che si trascorre in organizzazioni (face-time) e su stereotipi di genere relativi alle competenze tipicamente maschili o femminili o relativi ai valori personali. Le studiose e gli studiosi dell’approccio psicologico si concentrano sui processi alla base delle aspirazioni e aspettative occupazionali delle donne e degli uomini e sulla natura e sul contenuto degli stereotipi di genere, che svolgono un ruolo importante nello sviluppo delle aspettative. Infatti, si creano delle aspettative influenzate sia dell’esperienza di socializzazione ai ruoli sessuali, sia dalla distribuzione attuale dei due sessi nelle categorie