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Riassunto del libro "Psicologia clinica: la relazione con il paziente. Incontro con il paziente, il colloquio clinico e restituzione" di Franco Del Corno e Margherita Lang
Tipologia: Sintesi del corso
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Normalmente vi è un’esplicitazione di una condizione di disagio, sofferenza o disturbo da parte di una persona (quella sofferente) ad un’altra (il “dottore”) che si presume abbia i mezzi, gli strumenti e le conoscenze per farvi fronte. Tutte le persone avvertono situazioni di disagio, sofferenza o disturbo, ma per alcune queste sensazioni appaiono insopportabili: di fronte a eventi di vita apparentemente simili alcune persone sembrano in grado di affrontare la situazione, mentre altre ne rimangono annichilite. Si potrebbe chiamare la persona che presenta il problema “ cliente ” o utente, ma l’uso di questi termini potrebbe risultare fuorviante, in quanto: utente = è colui che usufruisce di un servizio pubblico cliente = è chi abitualmente si avvale della prestazione di qualcuno, quindi chiunque richieda un parare a un tecnico che si presume competente. La situazione che ha provocato la richiesta di aiuto è una “ personality dysfunction ” o un “ living impairment ”. Queste persone hanno l’impressione che sia intervenuto un cambiamento a cui attribuiscono una valenza negativa. Il rapporto che essi intrattengono con questo cambiamento è analogo a quello che si ha con un disturbo o una malattia fisica: queste persone si sentono “affette da un’anormale condizione dell’organismo, causata da alterazioni organiche o funzionali”. Non sempre la percezione di malattia è corretta. La persona si rivolge al tecnico per esporre i dubbi che lo attanagliano rispetto alla propria condizione o per conferma/disconferma della diagnosi fatta. Non sempre il clinico conferma la diagnosi fatta dal paziente: egli può non concordare rispetto alla gravità del disturbo lamentato, non riconoscere la presenza stessa di un disturbo o individuare la presenza di un disturbo diverso da quello accusato. Oltre a questo, è compito del clinico capire se la persona si sta rivolgendo al tecnico più adeguato, in caso contrario è dovere etico del clinico inviarlo ad un altro tecnico. 1.1 La persona che ho di fronte ha effettivamente bisogno di me? Se le variabili intrapsichiche e interpersonali sono secondarie rispetto agli oggettivi elementi di realtà è molto probabile che sia prima necessario il parere di un tecnico diverso dallo psicologo clinico. infatti è possibile che una volta affrontati gli aspetti di realtà, l’ansia e la preoccupazione che hanno provocato la richiesta di consultazione si riducano al punto da rendere inutile la consultazione stessa. Se invece, gli elementi di realtà sono secondari alle variabili intrapsichiche e interpersonali è molto probabile che l’intervento dello psicologo clinico diventi prioritario. 1.2 Ciò che il paziente lamenta è un problema evolutivo, un disagio momentaneo o una malattia? La persona che si rivolge al clinico può avere un serio disturbo psichico, per il quale è necessario un pronto intervento oppure può attraversare un momento complicato della propria vita per cui è indicato un intervento specifico e mirato oppure ancora può sentirsi momentaneamente disorientata. valutare se il disturbo lamentato dal paziente è un problema evolutivo, un disagio momentaneo oppure una malattia è l’esito di un ragionamento diagnostico. 1.3 L’uso dei modelli di disturbo psichico Una stessa situazione di disagio o di sofferenza può essere letta secondo modelli diversi.
In psicologia clinica però i modelli sono datati e correlati con l’ideologia psicologica e psichiatrica in auge in un determinato periodo. Per cui è molto importante chiedersi: da dove proviene questo modello? Quale particolare aspetto della realtà clinica tende a privilegiare? Quali altri aspetti tralascia o nega? Quali possono essere le conseguenze del suo impiego in una specifica situazione? Il compito del clinico è di individuare il modello più idoneo per la comprensione del fenomeno rilevato. In realtà, la scelta da parte del clinico di un modello di disturbo è spesso fatta a priori e fermamente mantenuta, diventando così una scelta ideologica. Ricerche epistemologiche dimostrano che per la comprensione dei disturbi specifici, alcuni modelli sono di maggior ausilio rispetto ad altri. Ad esempio si può essere fautori del modello biologico, ma è importante riconoscere quando è più appropriato “leggere” il disturbo del paziente secondo un modello psicogenetico. QUINDI è molto importante che la scelta del modello sia determinata da convincimenti scientifici e dall’evidenza clinica e non dall’appartenenza a scuole. La scelta del modello determina non solo la definizione del disturbo psichico, ma anche i criteri in base ai quali un sintomo o un disagio è attribuito o non attribuito a uno stato morboso e la relazione con la persona che ne è affetta. I modelli di disturbo psichico sono i seguenti: organogenetico il disturbo psichico è descritto e analizzato secondo il modello meccanico di malattia. Il sintomo patologico è visto come una struttura, una funzione, un comportamento che subisce un processo di alterazione a causa di anomalie fisiologiche, biochimiche o a livello del sistema nervoso centrale. Perciò è necessario un intervento per ricostruire, qualora fosse possibile, la condizione iniziale. sociogenetico il disturbo psichico è descritto e analizzato come una reazione sana a una società malata. Alcuni comportamenti o azioni, solitamente considerate devianti poiché costituiscono un’infrazione alle norme della collettività, sono in realtà una conseguenza dell’ambiente sociale. psicogenetico psicoanalitico: il disturbo è descritto e analizzato come esito di un conflitto intrapsichico, che va interpretato. comportamentistico: il disturbo psichico è descritto e analizzato come un comportamento inadeguato. I modelli di apprendimento adeguati e inadeguati sono il risultato di un processo di apprendimento. Il trattamento dei comportamenti inadeguati si basa sulle teorie dell’apprendimento. cognitivo: il disturbo psichico è descritto e analizzato come la conseguenza dell’attivazione di un sistema di codificazione più primitivo, che a sua volta modifica la processazione delle informazioni. sistemico: il disturbo psichico è descritto e analizzato come un deficit dei processi transazionali di adattamento. I sintomi sono gli effetti pragmatici della comunicazione umana. bio-psico-sociale il disturbo psichico è descritto e analizzato attribuendo uguale importanza ai fattori biologici, psicologici e sociali. La scelta di un modello implica anche una modalità di indagine specifica e settoriale, in quanto il modello stesso è costituito da un gruppo di attribuzioni sistematiche che servono a comprendere le cause del comportamento umano. L’utilizzo acritico (privo di capacità critiche) di un modello porta a rilevare o indagare solo gli elementi che ne confermano il quadro teorico di riferimento: costituisce, quindi, una potenziale fonte di errore. quando si ha a che vedere con informazioni limitate, nel tentativo di creare ordine e coerenza si usano i modelli. Un modello può spiegare un insieme di fatti o di punti di vista e, di conseguenza, aumentare la comprensione.
gravità della situazione e le variabili che lo inducono a cercare aiuto o a ritenere di essere in grado di affrontare il problema da solo. 3.1 La diagnosi del paziente Esistono alcune condizione particolari che incidono sulla capacità/possibilità del singolo di rilevare la propria sofferenza: ● il valore soggettivo attribuito al sintomo cioè il modo in cui il paziente si pone in relazione alla malattia ● le capacità di coping ovvero se un’esperienza che egli cerca di superare come ogni altro disturbo ● la volontà di negare la malattia. l’individuo può attribuire a ciò che percepisce un significato improprio ● la struttura di personalità del soggetto, la sua realtà culturale e sociale, i suoi obiettivi, ecc. In genere, la persona si rivolge al clinico solo quando la sintomatologia modifica il suo “stile di vita” o riduce la qualità dell’esistenza o interferisce con l’esercizio delle abituali capacità. La scelta di rivolgersi a qualcuno è la conseguenza di un processo diagnostico svolto “in proprio”. Il paziente ricorre a un processo di selezione e ordinamento dei dati e formula ipotesi in basa a una “epidemiologia del buon senso” il paziente “legge” i sintomi secondo un proprio modello etiopatogenetico, che può essere biologico (alterazione organica), statistico (il sintomo si discosta dalla sua norma statistica personale), sociale (il sintomo è un comportamento che intralcia lo svolgimento delle sue abituali attività), interpersonale (il sintomo è attribuito a difficoltà di rapporto con gli altri) o intrapsichico (il sintomo è attribuito a un disagio emotivo). 3.2 La diagnosi dei familiari In alcuni casi, la persona non percepisce che è avvenuto un cambiamento. L’individuo può essere allora indotto a considerare la necessità di un intervento in seguito a osservazioni da parte dei famigliari. Può succedere che la persona non avverta la necessità di un parere clinico, in quel caso i famigliari devono intervenire in prima persona e quindi decidono l’intervento e lo impongono oppure prendono appuntamento con il clinico anche senza il paziente. questa decisione è l’esito di una scelta sofferta, in quanto il riconoscimento della presenza di un disturbo psichico nel familiare può provocare preoccupazione per il proprio stato di salute (“forse sto male anche io”) e suscitare un senso di responsabilità colpevole (“forse si è ammalato a causa mia”). Generalmente è raro che il disturbo psichico venga prontamente individuato. Di solito, uno o più famigliari avvertono una sensazione di ansia dovuta all’impressione che ci sia “qualcosa che non va”. Successivamente essi cercano un capro espiatorio ha la funzione di ridurre il senso di colpa e di allontanare il sospetto di essere in qualche modo coinvolti nel problema.
4. LA RICHIESTA DI AIUTO Il paziente non sempre si rivolge ad un tecnico qualificato, ma può chiedere conferma della propria diagnosi a un familiare, a un amico, al farmacista, ecc. I pazienti che si rivolgono subito allo psicologo o allo psichiatra sono una minoranza. Come per la malattia fisica, la persona si avvale prima della “epidemiologia del buon senso” e mette in atto, se necessario, rimedi “casarecci”. Solo quando è convinta dell’inefficacia di questi strumenti, si interroga sulla necessità di richiedere un parere ufficiale. Se non ha già direttamente o indirettamente esperienza dell’utilità dell’intervento di un psichiatra o di uno psicologo, la decisione di rivolgersi all’esperto viene presa solo dopo la risoluzione di alcuni nodi decisionali: ● si è convinto che la buona volontà non serve ● ritiene che valga la pena di correre il rischio di essere considerato “matto”, pur di ridurre la sofferenza che sta provando ● si è convinto che sia utile parlare con qualcuno si quello che gli sta capitando ● si è persuaso che sia necessario rivolgersi a una persona competente
anche i familiari devono affrontare gli stessi nodi sopradescritti, prima di decidere un intervento per un congiunto, ma il loro processo decisionale è complicato dai sentimenti che nutrono verso il paziente e dalla responsabilità della presa di decisione. La scelta di un qualsiasi consulente è sempre problematica: ci si fida del nome indicato dall’amico oppure si cerca il nome di prestigio, magari pubblicizzato dai mass media? Spesso vengono confusi i nomi dei diversi operatori che si occupano di salute mentale: neurologo e psichiatra sono considerati equivalenti, così come psicologo, psicoterapeuta e psicoanalista. La scelta del tecnico è la risultante di almeno 3 criteri concomitanti:
La specificità del tecnico cui si rivolge il potenziale paziente dipende dall’esito del processo di individuazione delle cause del disturbo. Se la sofferenza psichica è imputata a cause organiche andrà dal “medico del corpo”, se invece ritiene che i fattori scatenanti siano di origine psichica, si rivolgerà al “dottore della psiche”, diversamente se ritiene che il problema sia causato da elementi di realtà, chiederà il parere delle persone che sono, più o meno direttamente, implicate nella situazione contingente. Se il paziente non è convinto dell’origine del disturbo, di solito risolve il dubbio privilegiando il criterio dell’accessibilità: va dal medico di base, che spesso è il più noto e il più facilmente raggiungibile, e gli pone il problema. l’accessibilità del clinico Quando si è presa una decisione, il desiderio è quello di non rimanere in una situazione di attesa. Tra i criteri che determinano la scelta dell’esperto ci sono la sua reperibilità, il tempo che intercorre tra la richiesta di un appuntamento e l’appuntamento stesso, il suo atteggiamento (rigido, flessibile) nei confronti delle necessità del paziente. Mentre difficoltà a reperire il clinico, lunghi tempi di attesa (superiori a 10 gg), orari di appuntamento che interferiscono con l’attività lavorativa del paziente possono demotivare quest’ultimo e facilitare la decisione di procrastinare o indurre la richiesta di uno specialista più accessibile. l’esito positivo o negativo di altre situazioni considerate simili Le persone comunicano tra loro e si scambiano informazioni che riguardano le tattiche, le strategie, i rimedi che permettono di stare bene e di combattere in maniera efficace i disturbi quotidiani. Allo stesso modo, le persone si consultano su quelli che ritengono “bravi dottori”. Spesso il paziente non cerca l’esperto più idoneo per il proprio disturbo, ma privilegia un criterio di familiarità rispetto a quello di competenza.
5. GLI STRUMENTI DELLO PSICOLOGO CLINICO 5.1 Il processo diagnostico La diagnosi è il primo passo che permette di trasformare una persona con un fastidio non ben precisato in un paziente con un disturbo psichico definito. L’atteggiamento nei confronti della diagnosi risente di scelte ideologiche e del modello di disturbo psichico che il clinico ha privilegiato nel proprio processo di formazione. Si definisce processo diagnostico l’iter che il paziente percorre insieme al clinico allo scopo di rilevare e circoscrivere l’ampiezza e l’entità dei disturbi lamentati, attribuire loro un significato e individuare le possibili strategie di cui avvalersi per ridurre, modificare o eliminare la causa che ha provocato la sofferenza che lui o i familiari lamentano. Nel processo diagnostico, lo psicologo clinico deve: ● ascoltare attentamente le informazioni e capire cosa il paziente intende dire ● decidere se la persona che ha di fronte si sta rivolgendo al tecnico più idoneo per risolvere il suo problema senza una diagnosi non è possibile fare una prognosi e prescrivere un trattamento.
Alcune difficoltà del ragionamento clinico sono spesso indotte da una serie di comportamenti che il clinico mette in atto nel corso del processo diagnostico, ad esempio il clinico può: ● essere troppo sottomesso alla propria teoria di riferimento e filtrare attraverso quest’ultima tutto quello che il paziente sta dicendo ● avere bisogno di catalogare immediatamente tutto ● essere talmente preoccupato di raccogliere dati da tralasciare gli aspetti qualitativi della comunicazione ● non dare spazio a materiale che sembra irrilevante e cercare di mantenere il paziente all’interno di una “griglia”.
6. GLI ERRORI DEL CLINICO Lo psicologo clinico come qualsiasi altro “dottore”, sbaglia. 6.1 L’errore del clinico è un errore cognitivo o emotivo? Alcuni autori sostengono che gli errori clinici sono la conseguenza di particolari disposizioni motivazionali ed emotive, altri invece sostengono che gli errori sono causati solo da fattori percettivi e cognitivi. Nessuna delle due posizioni teoriche, in realtà, appare completamente condivisibile. L’unico elemento su cui tutti i ricercatori concordano è che la probabilità di errore aumenta quanto più il processo è interpretativo o inferenziale. Alcuni errori da parte del clinico sono poi indotti dal paziente o, più precisamente, dai sintomi che quest’ultimo accusa: se il paziente è agitato, se è chiuso in sé stesso. 6.2 Il clinico sbaglia perché gli manca l’esperienza? Quali sono le differenze tra clinico esperto e clinico inesperto? È necessario fare una premessa iniziale: le capacità cliniche non sono un’arte, ma l’esito di un faticoso processo di apprendimento. L’esperienza può in parte “ridimensionare” i problemi che può incontrare il clinico, ma non costituisce rimedio universale, essa infatti modifica solo parzialmente le caratteristiche personali, mentre può facilitare il ricorso a processi di pensiero più adeguati per il compito che si deve affrontare. Il clinico esperto ha maggiori informazioni e conoscenze del clinico meno esperto, inoltre le sue conoscenze sono meglio organizzate e quindi più facilmente recuperabili e applicabili a situazioni nuove. Inoltre affronta con maggiore facilità i problemi presentati in modo confuso o ai quali mancano elementi significativi d’informazione e se si rende conto di non trovare la soluzione, cambia rapidamente l’approccio al problema. Sa che è importante individuare la tecnica più idonea, ma sa anche che questa deve essere inserita in una strategia più generale. Il clinico esperto affronta con maggior successo anche alcuni problemi intrinseci al ragionamento clinico, quali: tollerare l’incertezza, non avvalersi di correlazioni illusorie per spiegare ciò che non ha capito, riconoscere le possibili discrepanze tra la diagnosi del paziente e la propria, e così via. Il clinico meno esperto tende a confondere la propria ridotta competenza con l’effettivo potere esplicativo delle teorie attualmente a disposizione. Spesso utilizza, per confermare le proprie ipotesi, tipi di evidenza diversi, ai quali attribuisce impropriamente lo stesso valore. Le difficoltà diagnostiche e terapeutiche sono spesso vissute dal clinico meno esperto come indici di una incompetenza che deve essere tenuta nascosta. Di conseguenza, diventa difficile chiedere aiuto al clinico più esperto, avvalersi di supervisioni e accettare di non sapere. **CAPITOLO 2: IL PRECESSO DIAGNOSTICO
L’iniziale approccio alla diagnosi era inizialmente finalizzato a perseguire lo sviluppo di maggiori capacità e il reperimento di strumenti adeguati e verificabili su di un’ampia casistica. In questo periodo essi si trovarono ad affrontare il problema della cosiddetta diagnosi “funzionale”. Si trovarono a constatare che la diagnosi rappresentava un evento significativo e determinante nella vita del paziente. Inoltre diveniva anche un irripetibile strumento di lavoro, che permetteva risultati ciclici sorprendenti, soltanto in quanto offriva al paziente un diverso punto di vista di sé. Questo di fatto, costringeva immediatamente ad abbandonare il principio deontologico del dover dire sempre e comunque la verità al paziente, così come la frequente usanza pietosa e a volte nociva di evitargli sgradevoli punti di vista. Divenne sempre più chiaro che qualunque ipotesi formulata nella fase iniziale della consultazione risultava precoce e spesso inesatta e diventava indispensabile comprendere meglio e dal “vivo” il funzionamento del paziente. Ciò era possibile grazie al lavoro diagnostico, in quanto permetteva di reperire le caratteristiche strutturali e le modalità di funzionamento diverse e quindi diversamente approcciabili e trattabili. La formulazione del processo diagnostico degli autori del libro deriva da una precisa attenzione alle importanti differenze tra casi apparentemente simili dimostrate dall’esperienza clinica. 1.1 L’effetto della diagnosi nosografica sul paziente Un problema centrale è l’utilizzo della diagnosi di tipo nosografico, poiché l’esperienza insegna che la definizione nosografica a volte può produrre un effetto importante su alcuni pazienti. è noto a tutti, che in alcuni casi, se lo psichiatra fa comprendere al paziente che la sua visione di sé, del mondo e del suo vedere tutto nero viene definita “depressione”, può permettergli di distanziarsi rispetto al processo di pensiero disturbato e disturbante. Questo può indurre un miglioramento effettivo, in quanto può accadere che il paziente individui un suo funzionamento malato dal quale può differenziarsi, non identificandosi totalmente con esso e contro il quale può in qualche modo lottare. In questi casi, la definizione nosografica non ha caratteristiche stigmatizzanti e quindi paralizzanti. Molto più frequentemente però si constata l’inutilità della pura e semplice definizione nosografica sul paziente. alcuni pazienti portano definizioni di sé “mi hanno detto che sono un borderline”, ma lo fanno in modo imitativo o come una sorta di bandiera della quale fanno gli usi più diversi. In alcuni casi, senza particolari effetti disastrosi, la caratterizzazione sindromica ha l’effetto di cristallizzare la patologia come fosse un dato di fatto, senza che sia possibile al paziente intravedere in alcun modo il suo modo di funzionare e quindi valutarne l’eventuale modificabilità. Per altri pazienti, invece la diagnosi nosografica assume caratteristiche tali da avere effetti devastanti come “sono affetto da una orribile e incurabile malattia”, e alcuni traducono dentro di sé le parole del medico in un’altra malattia. 1.2 Dalla diagnosi nosografica alla “diagnosi funzionale” Il processo diagnostico in psicologia clinica non può fermarsi in modo ritualizzato al puro e semplice criterio nosografico. Se il criterio clinico è quello che orienta secondo scienza e coscienza, cercando di individuare nel modo più appropriato, un male e le possibilità di curarlo, bisogna tenere in considerazione che per il nostro paziente può essere determinante il suo modo di percepirsi e il modo in cui affronta la propria difficoltà sia dall’inizio della consultazione. Assumono una notevole rilevanza, in quanto forniscono non solo una delle rappresentazioni che il paziente ha di sé stesso, ma anche una chiave di lettura per i suoi convincimenti riguardo la modificabilità del suo stato e delle condizioni che lo determinano. La decisione di richiedere una consultazione ad uno specialista è di per sé un momento cruciale nella vita di una persona, talvolta molto doloroso per l’interessato e per le persone a lui vicine. La richiesta ad un esperto di un parere permette di uscire da una generica o più specifica difficoltà può essere formulata in vario modo: molto spesso il vero oggetto delle richieste del paziente può essere una persona significativa, che a suo avviso è l’unica a disporre di qualità importanti e indispensabili per la sua
Essa è caratterizzata dall’essere una sorta di stato di tregua, che avviene in un clima emotivo in cui ogni giudizio è sospeso, da parte sia del clinico che del paziente: le ipotesi e i convincimenti, le vicissitudini emotive dei singoli momenti godono del credito di poter essere riviste in un insieme probabilmente diverso. Lo stesso paziente sfiduciato o diffidente può momentaneamente considerare la sua condizione come un oggetto di un’attenzione di cui non si conosce l’esito: anche lui sospende momentaneamente il suo solito sfiduciato verdetto. È evidente che se l’attesa della diagnosi corrisponde solo all’attesa di un verdetto e non di un parere utilizzabile, in molti casi la posizione emotiva del paziente e tutt’affatto differente. La disponibilità concettuale e emotiva dei diagnosti all’utilizzo di differenti fonti e strumenti conoscitivi induce un ridimensionamento di eventuali aspettative che il paziente, consapevolmente o inconsapevolmente, opera sul clinico come unico polo possibile di aiuto e di comprensione. La riduzione dell’idealizzazione del clinico corrisponde ad una posizione meno regressiva e passiva del paziente. La situazione è ancor più caratterizzata in tal senso se il clinico è disponibile a richiedere l’intervento di altri clinici con specifiche competenze differenziate. Nella stessa direzione va intesa la disponibilità e la capacità di avvalersi anche della storia e delle vicissitudini di eventuali interventi diagnostici e/o terapeutici precedenti. Il clinico può cogliere la processualità significativa sottesa alla storia clinica del paziente e quest’ultimo è indotto a considerare quanto gli è accaduto non in modo episodico e casuale, ma come conseguenza di una sua specifica caratteristica. Ciò può permettere di comprendere, oltre agli eventuali errori di valutazione e di indicazione da non ripetere, anche i possibili aspetti della personalità del paziente che gli rendono difficile utilizzare un determinato aiuto e rischiano di rendere vane altre indicazioni omologhe. 2.2 L’alleanza di lavoro nel processo diagnostico Il particolare clima emotivo proprio della situazione diagnostica rende possibile l’instaurarsi di una particolare alleanza: elemento fondamentale. Viene definita alleanza diagnostica quella particolare alleanza che è diversa dall’alleanza terapeutica e che è poco considerata in letteratura. 2.3 Ostacoli all’alleanza diagnostica Un’esplicitazione più articolata e motivata dell’utilità della diagnosi si rende necessaria con quei paziente che non comprendono la necessità di uno spazio temporaneo di sospensione. In altri casi può porsi il problema di un rifiuto della situazione diagnostica per un’intolleranza alla dilazione tra richiesta e soddisfazione della medesima. In quest’ultima condizione è determinante distinguere tra stato di emergenza o urgenza, nel senso di un bisogno effettivo di un intervento indilazionabile e un’abituale modalità impaziente e frettolosa di richiedere sempre tutto e subito. Esistono ancora altri ostacoli all’instaurarsi dell’alleanza diagnostica. Essi devono essere considerati e compresi come materiale prezioso ed indispensabile per la strutturazione stessa dell’alleanza e per ogni eventuale e successiva indicazione. Un altro elemento da considerare con attenzione, che alcune volte crea difficoltà allo strutturarsi di un’alleanza diagnostica, è il fatto che il paziente può nutrire paure relative al suo stato e al suo futuro destino, che possono evidenziarsi al momento della consultazione. Il paziente può temere che emergano, diventino esplicite e quindi vere oppure che la diagnosi rappresenti un vero e proprio verdetto. Una condizione molto particolare si presenta quando la persona che richiede la diagnosi non è il paziente stesso, ma un familiare. È possibile che questo fatto non modifiche in modo sostanziale l’assetto del lavoro con il paziente, a patto che questi sia parzialmente o del tutto d’accordo con l’invio. Potrà essere necessario, fin dall’inizio, coinvolgere nella consultazione diagnostica gli invianti o altre persone determinanti e significative. Le difficoltà a instaurare un’alleanza diagnostica possono essere talmente caratteristiche da rivelarsi degne di attento interesse, anziché essere immediatamente considerate un ostacolo. Oltre agli ostacoli già citati, vanno considerati anche gli ostacoli legati alla reticenza per vergogna e quelli connessi alla reticenza per attività criminali o delinquenziali.
2.4 L’uso di strumenti diversi nel corso del processo diagnostico Il processo diagnostico avviatosi con la prima consultazione procede per approssimazione ed ipotesi successive verso l’acquisizione di elementi significativi relativi ai vari livelli della complessità organizzata del paziente: somatico, intrapsichico, interpersonale, micro e macrosociale, culturale e di base. Esistono casi in cui tutto l’iter diagnostico può venire ridotto con l’eliminazione della somministrazione dei test e delle sedute di osservazione: ciò avviene quando in presenza di una situazione strutturale chiara non esistono dubbi riguardo le indicazioni. 2.5 La collaborazione tra clinici diversi Il paziente può presentare aspetti discordanti sia ai diversi operatori sia ai differenti strumenti conoscitivi utilizzati. La corretta valutazione delle discrepanze diagnostiche è parte fondamentale dell’iter diagnostico. Eventuali discordanze, invece di costituirsi come motivo di conflitto, più o meno riconosciuto ed esplicitato, possono essere considerate uno specifico materiale clinico. esistono pazienti che ai test evidenziano una struttura più precaria, mentre ai colloqui clinici rivelano un Io assai più integro e difese meno arcaiche, mostrando in questo modo che la situazione relazionale, anche se aspecifica, permette loro un miglior funzionamento. Può verificarsi il contrario, ad esempio un paziente marcatamente schizoide: teso a difendersi da una distanza interpersonale, che può sentire così ravvicinata da provocargli panico potrà apparire più grave nei colloqui clinici. In questo caso, la situazione testistica può fornire la rassicurazione e la distanza che gli consentono una prestazione a livelli più evoluti. Le discrepanze, in un corretto processo diagnostico, anziché rappresentare un ostacolo, sono spesso un importante indizio di differenti modalità di funzionamento presenti nel paziente in condizioni diverse e come tali vanno esplorate. La possibilità di mettere insieme i vari elementi diagnostici, raccolti tramite i diversi operatori, presuppone una buona capacità di collaborazione e di alleanza di lavoro tra i clinici. Certamente ciò può essere molto difficile, qualora conflittualità tra i vari operatori inducano confusione tra discrepanze clinico-diagnostiche e contrapposizione pregiudiziali. 2.6 La “sintesi” Il processo di sintesi precede la restituzione al paziente e richiede al clinico di tenere contemporaneamente conto di diversi livelli: ● il quadro generale del funzionamento del paziente in modo da avvalersi delle sue capacità di comprensione e delle precedenti esperienze ● il motivo per cui il paziente richiede la consultazione e, se vi è stata una crisi, il motivo della stessa, per evitare di fare una diagnosi ripetitiva. Esistono fattori che possono ostacolare una sintesi diagnostica: ● il tentativo di far quadrare tutti gli elementi raccolti in un insieme logico, anziché prendere atto delle discrepanze e del loro significato ● la necessità di trovare una soluzione che può significare una restituzione e/o un’indicazione terapeutica affrettata ● la tendenza del clinico a procrastinare qualsiasi comprensione e decisione, senza tenere conto delle caratteristiche strutturali del paziente ● la difficoltà del clinico ad abbandonare, se pur nell’accettazione di un corretto percorso diagnostico una teoria o uno schema rigido rispetto alla restituzione. Siccome non esiste un’unica modalità di restituzione, ci si deve preoccupare, già nel processo di sintesi, che quello che verrà detto al paziente sia comprensibile e funzionale per lui. La sintesi del processo diagnostico può concludersi con delle certezze parziali, con delle ipotesi e con dei dubbi. Ciascuna di queste situazione porta ovviamente a restituzioni differenti, orientando diversamente il successivo lavoro con il paziente, magari per affrontare i dubbi e dirimere tra le diverse ipotesi. SEZIONE II CAPITOLO 1: EVOLUZIONE STORICA DEL COLLOQUIO CLINICO
Contemporaneamente Glover individuava l’esistenza di nessi tra il disturbo psichico e le istanze del modello strutturale, mettendo in questo modo le basi per quella che sarà la nosografia psicodinamica che tornerà in auge negli anni ’90. sotto le spinte dell’angoscia l’Io fa dei tentativi adattivi, ma ha solo 3 possibilità: può negare o inibire la pulsione può diminuire il livello di richiesta nei confronti dell’ambiente, quindi avere una tolleranza della frustrazione-angoscia può avvenire una distorsione patologica dello stesso Io le psicosi appartengono a questo gruppo e sono un esempio di distorsione dell’esame di realtà L’introduzione di questi concetti modifica la concezione di disturbo psichico in auge. Al centro dell’attenzione c’è la possibilità di individuare il trattamento più adeguato per il paziente: gli strumenti a disposizione sono però pochi e limitati. La stessa teoria della clinica è agli esordi. 1.3 Il modello di colloquio non psichiatrico Il colloquio è lo strumento utilizzato elettivamente da psichiatri e psicoanalisti: per lo psichiatra il colloquio serve soprattutto a raccogliere le informazioni necessarie per formulare una diagnosi nosografica- descrittiva. I clinici a orientamento psicoanalitico invece esportano tecniche, che si sono rivelate efficaci in ambito terapeutico, allo scopo di migliorare la comunicazione con il paziente e ottenere maggiore collaborazione e informazioni più attendibili. La fine degli anni ’40 è contraddistinta da un tentativo iniziale di differenziare il colloquio clinico dall’esame psichico. Le conoscenze e gli strumenti terapeutici di questo periodo non permettono di creare nuovi modelli interpretativi. Quindi si estrapolano alcuni concetti specifici del setting terapeutico per applicarli in altri contesti. Viene dato ampio spazio alla raccolta di informazioni che riguardano la vita del paziente, ma anche al suo modo di percepire il proprio disturbo, alle emozioni che si manifestano nella relazione paziente-psichiatra e a quello che il paziente suscita e provoca in quest’ultimo. Si diffonde sempre di più la consapevolezza che clima emotivo e relazione con il paziente possono condizionare l’andamento del colloquio al punto da ostacolare o agevolare la corretta raccolta di elementi utili ai fini diagnostici. L’attenzione si sposta dai dati “oggettivi”, che contraddistinguono l’esame psichico, a quelli soggettivi, che diventano un elemento integrante per la formulazione della diagnosi.
2. GLI ANNI ’50-‘ In questi anni sono numerosi i tentativi di pervenire a una maggiore comprensione del disturbo psichico: è proprio in questi anni che compare il primo sistema di classificazione consensuale (DSM-I), si modifica il modello medico di disturbo psichico (da meccanico a biomedico) e si cercano modelli alternativi. 2.1 L’evoluzione dei modelli di disturbo psichico: dalla comparsa del DSM-I alla ricerca di nuove applicazione della tecnica psicoanalitica La pubblicazione del DSM-I sancisce i principali cambiamenti avvenuti nella psichiatria americana: l’obiettivo è quello di fornire ai diversi operatori uno strumento di comunicazione consensuale. uno degli ostacoli più seri che impediscono il progresso della psichiatria è la difficoltà a comunicare. Infatti, gli psichiatri anche se sembrano condividere gli stessi orientamenti, spesso non parlano la stessa lingua, ma ad esempio utilizzano lo stesso termine per indicare due concetti diversi. L’orientamento prevalente è quello di A. Meyer che aveva concettualizzato i disturbi psichici come reactions, vale a dire come reazioni psicobiologiche a stress esistenziali multicausali. Il contributo di Meyer è molto importante perché condizionerà la psichiatria americana fino agli anni ’60. Secondo l’autore i disturbi psichici non sono malattie con un andamento prestabilito e la malattia rappresenta una deviazione rispetto al processo con cui la persona cerca di adattarsi a un ambiente che sta cambiando. In questo periodo compaiono gli ansiolitici per il trattamento della depressione maggiore, il litio viene invece usato per il trattamento degli episodi maniacali e depressivi nei disturbi dell’umore e viene dimostrata l’efficacia dei farmaci antipsicotici per il trattamento della schizofrenia.
queste innovazioni in ambito medico rendono possibile trasformare il modello medico da modello biomedico. Aumentano le possibilità di maneggiamento del paziente, con il cambiamento della situazione asilare manicomiale (psichiatria sociale, Day Hospital e Comunità Terapeutica). La modificazione delle strutture manicomiali diventa inevitabile dopo averne riscontrato l’inadeguatezza rispetto alle richieste. Il contesto di questo periodo risente di molteplici influenze culturalmente diverse: nascono i primi modelli sociogenetici del disturbo psichiatrico, che vedranno il loro massimo sviluppo negli anni ’60-’70 e si teorizzano i modelli di disturbo psichico che a partire dagli anni ’70 acquisiranno finalità terapeutiche sempre più specifiche: behavioristi, umanistici e esistenziali. I cambiamenti avvenuti rendono indispensabile cercare nuove applicazioni della tecnica psicoanalitica, per cui compaiono per la prima volta le psicoterapie brevi, i trattamenti familiari e le psicoterapie di gruppo. La tecnica del trattamento si evolve anche in base al quadro psicopatologico del paziente: ciò implica un diverso uso del colloquio, perché lo strumento cambia in base a scopo, specificità della relazione con il paziente, caratteristiche del paziente e contesto terapeutico. Negli Stati Uniti, il Mental Health Act ribadisce che: “ l’obiettivo del trattamento moderno dei pazienti affetti da gravi disturbi psichiatrici è quello di metterli in condizione di vivere in modo normale, inseriti nella comunità. Per conseguire tale obiettivo è necessario: 1. preservare quanto possibile il malato dalle conseguenze destabilizzanti della istituzionalizzazione
2. qualora le condizioni del paziente necessitino di ospedalizzazione inviarlo il prima possibile a casa e _nella vita di comunità
2.3.4 Il contributo di M. Gill Il lavoro di M. Gill rappresenta il tentativo di dare uno statuto scientifico a un modello di colloquio che non sia di matrice dichiaratamente psichiatrica o psicoanalitica ma che, risulti uno strumento adeguato alla realtà clinica del paziente. Secondo M. Gill: ● il colloquio è lo strumento diagnostico e terapeutico di elezione in psichiatria. Gli autori parlano di “colloquio diagnostico modificato” il primo obiettivo è di instaurare una relazione tra due persone sconosciute (professionista-cliente). Il clinico deve fare un serio tentativo di comprendere il paziente e stabilire un caldo contatto umano. Il secondo obiettivo è una valutazione della situazione psicosociale del paziente. Il terzo obiettivo è di rafforzare il desiderio del paziente di intraprendere la terapia indicata e pianificarla in passi ulteriori. Le finalità del colloquio diagnostico modificato sono la formulazione della diagnosi e l’indicazione al trattamento. Le aree da indagare riguardano la natura del disturbo, la motivazione al trattamento psicoterapeutico, l’analisi dei fattori interni e esterni. ● l’andamento del colloquio è influenzato dalla struttura di personalità degli interlocutori, dalle reciproche percezioni di ruolo e dalla tecnica utilizzata da chi conduce il colloquio. ● la situazione di colloquio, proprio per la sua novità, è ansiogena sia per l’intervistatore, sia per l’intervistato, che reagiscono mettendo in atto misure difensive, coerenti con la loro struttura di personalità. ● fare bene il primo colloquio implica ottenere le informazioni indispensabili per la diagnosi. ● la tecnica di conduzione del colloquio cambia quando si passa dalla fase diagnostica a quella finalizzata all’indicazione.
3. DALLA FINE DEGLI ANNI ’60 AI PRIMI ANNI ‘ In questo periodo, l’importanza attribuita al colloquio si riduce, perché la teoria della clinica e i modelli di disturbo psichico subiscono innumerevoli cambiamenti. Con le prospettive relazionali di Bateson e della scuola di Palo Alto il disturbo psichico è considerato la conseguenza di una distorsione della comunicazione e delle interazioni tra i membri del gruppo. Perde quindi la connotazione medica. Si riduce il potere esplicativo dei modelli organocentrici e psicogenetici, mentre aumenta quello dei modelli sociogenetici. 3.1 L’evoluzione dei modelli di disturbo psichico: la ricerca di modelli alternativi La tormentata evoluzione della psichiatria e della psicologia clinica, in questi anni, riflette il cambiamento dei modelli di disturbo psichico. Ogni modello tenta di circoscrivere il proprio territorio. Il confronto e l’integrazione con altri modelli è contraddistinto da un’estrema conflittualità. La conflittualità è sempre presente anche all’interno di uno stesso modello. Il disturbo è definito in base al credo terapeutico, che a sua volta condiziona l’uso di strumenti e la definizione del disturbo stesso. Partendo da posizione così diverse, diventa quasi impossibile confrontare la diagnosi e il trattamento di quadri psicopatologici, che si potrebbero ritenere simili. Di conseguenza, è impossibile valutar la scelta dell’indicazione terapeutica e l’uso delle tecniche e degli strumenti, tra cui il colloquio. MODELLO ORGANOGENETICO: psichiatria biologica Si può considerare disease qualsiasi condizione che si associata a fastidio, dolore, invalidità, morte o una maggiore propensione a queste condizioni. Quando si utilizza il termine disease ci si riferisce a un cluster di sintomi (quelli lamentati dal paziente) e/o segni (quelli visti dal clinico). L’elemento essenziale è che si risolve in una consultazione con un medico, specializzato nel riconoscere, prevenire e curare i disease. Il termine malattia mentale è utilizzato con due accezioni diverse: include tutti i tipi di deviazione e tutte le anomalie che possono portare una persona a diventare un paziente la malattia mentale come disease: a. un disease è associato a una sindrome clinica in questo caso ci si limita a formulare un’ipotesi che poi dovrà essere confermata b. esiste un sottostante disturbo biologico I disturbi della personalità non possono essere considerati dei diseases, in quanto non esiste evidenza a sostegno della presenza di meccanismi biologici.
3.1.2 Il cambiamento delle strutture manicomiali come conseguenza dell’evoluzione dei modelli di disturbo psichico La fine degli anni ’60 è caratterizzata, per la psichiatria e per la psicologia clinica, dalla comparsa di un modello interpretativo del disturbo psichico di impronta sociogenetica: l’ antipsichiatria. Come sappiamo, questo modello, ricollega la malattia mentale a profonde disfunzioni sociali, di cui costituisce la conseguenza o la risposta inevitabile. In questo momento sono in crisi sia la psichiatria tradizionale sia la psicoanalisi. Ma la spinta propulsiva del movimento antipsichiatrico ha una durata limitata, non manca però di conseguire alcuni effetti, riscontrabili in precise pratiche sociale e scelte valoriali. si riesaminano e si teorizzano in modo diverso funzioni e scopi delle istituzioni psichiatriche di ricovero (strutture intermedie), si indaga il peso delle determinanti ambientali e socioeconomiche sul prodursi e il mantenersi del disturbo psichico e si ridefinisce il ruolo degli operatori e il contratto terapeutico tra questi ultimi e il paziente. In questo momento storico, il presupposto è che i rapporti con l’ambiente siano indispensabili per la salute psichica, quindi si individua nella psichiatria sociale l’unica alternativa possibile. Le strutture intermedie (Day Hospital, Comunità Terapeutiche, Night Hospital, Half-way houses) diventano l’alternativa all’ospedale psichiatrico. Lo psichiatra che adotta un modello sociogenetico perde le proprie funzioni mediche: apparentemente si cancellano le differenze tra operatori di diversa formazione, ma il tentativo di utilizzare un modello di disturbo psichico completamente diverso da quello medico, e in opposizione a quest’ultimo, incontra numerosi ostacoli: ne sono un esempio, negli Stati Uniti, i problemi conseguenti alla deistituzionalizzazione. MODELLO SOCIOGENETICO: antipsichiatria La malattia mentale è un mito, gli psichiatri non si occupano di malattie mentali e del loro trattamento, ma nella prassi effettiva hanno a che fare con difficoltà di carattere personale, sociale e etico. MODELLO PSICOGENETICO: psichiatria psicoanalitica I fenomeni mentali sono il risultato di un conflitto. Questo conflitto deriva da potenti forze inconsce che cercano di esprimersi e che richiedono un costante controllo da parte di forze opposte che ne impediscono l’espressione. Queste forze interagenti possono essere concettualizzate come:
1. desiderio e una difesa contro tale desiderio 2. diversi parti intrapsichiche con finalità o priorità differenti 3. un impulso in contrasto con una consapevolezza interiorizzata delle richieste della realtà esterna MODELLO PSICOGENETICO: pragmatica della comunicazione Una volta che si accetta il principio di comunicazione secondo cui un comportamento si può studiare soltanto nel contesto in cui si attua, i termini ‘sanità’ e ‘insania’ perdono praticamente il loro significato in quanto attributi di individui. La nozione di ‘anormalità’ diventa molto discutibile, perché generalmente si è concordi nel ritenere che la condizione del paziente non sia statica, ma vari al variare della situazione interpersonale e dell’ottica preconcetta dell’osservatore. MODELLO PSICOGENETICO: organizzazioni cognitive personali In un’ottica sistemico-processuale si ritiene che l’estrema varietà e variabilità delle manifestazioni psicopatologiche riscontrabili all’osservazione clinica possa essere ricondotta a un numero limitato di modelli invarianti di chiusura organizzazionale, in grado di produrre un’ampia varietà di modelli cognitivi, emotivi e motori nel tentaivo di ordinare specifiche oscillazioni perturbative. Diventa allora possibile identificare alcune organizzazioni base di significato personale, la cui articolazione nel corso del ciclo di vira dà luogo a modelli specifici, di disfunzione cognitiva ogniqualvolta si verifichino disequilibri della loro coerenza sistemica.
filosofie, terapeuti e cliente; altri invece credono che tutte le psicoterapie producano più o meno gli stessi effetti. 3.3 Dal colloquio strutturato al colloquio “specializzato” Dalla fine degli anni ’60 fino all’inizio degli anni ’90 si riscontra un particolare atteggiamento nei confronti del colloquio: gli aspetti tecnici dello strumento e il suo legame con la teoria della clinica perdono significato. L’attenzione degli operatori è rivolta a cercare forme innovative per il trattamento del disturbo psichico, per cui prestano poca attenzione agli strumenti diagnostici, tra i quali il colloquio. In questo momento ci si domanda quale sia il modello di trattamento migliore in assoluto, e si presta un’attenzione molto minore a quello che potrebbe essere il modello più adeguato per il paziente. Il colloquio assume un significato specifico, solo nell’ambito della tecnica terapeutica e in funzione di questa. Nel momento in cui il colloquio diventa il veicolo della tecnica terapeutica, assume le caratteristiche del modello etiopatogenetico all’interno del quale è utilizzato: per cui un colloquio ad orientamento psicoanalitico e un colloquio a orientamento cognitivo-comportamentale saranno profondamente diversi. In questo periodo vengono prodotti dei lavori sul colloquio, che possono essere raggruppati in: ● colloqui che utilizzano il modello nosografico-descrittivo proprio del DSM, si tratta di strumenti strutturati e semi strutturati, con finalità di puro inquadramento diagnostico sintomatico-comportamentale, che prescindono da qualsiasi ipotesi etiopatogenetica. ● colloqui specializzati, cioè colloqui organizzati in base a un preciso orientamento teorico. Tra questi lavori si possono individuare due tipi di approcci: 1. gli autori che basano la conduzione del colloquio sul tipo di modello teorico di riferimento dell’operatore
2. gli autori che propongono una modalità di conduzione del colloquio in base alle manifestazioni psicopatologiche del paziente 3.3.1 I colloqui finalizzati a una diagnosi nosografica-descrittiva: il colloquio clinico per il DSM Il ritorno del modello biologico di disturbo psichico porta un cambiamento nella tecnica del colloquio, da insight-oriented a sympton-behavior-oriented. Othmer e Othmer propongono un modello di colloquio clinico finalizzato a formulare una diagnosi nosografica DSM, definita multifasica poiché strutturata in 7 fasi. La situazione del colloquio è definita, dagli autori, attraverso la metafora del puzzle: la situazione del collquio è per molti versi simile a quella di due persone che cercano di fare un puzzle, in cui il paziente ha i pezzi del rompicapo, mentre il clinico conosce il disegno che si deve ricomporre e il fatto che entrambi vogliono fare il puzzle insieme costituisce il fondamento del rapporto. Per formulare una diagnosi bisogna: osservare gli indizi diagnostici individuare il problema, dall’inizio del colloquio bisogna avere presenti tutte le diagnosi possibili e nel corso del colloquio bisogna compilare una sorta di elenco dei possibili disturbi psichiatrici da cui il paziente potrebbe essere affetto, e allo stesso tempo un altro elenco degli indizi in base ai quali si possono escludere alcuni disturbi psichiatrici. follow up delle impressioni iniziali, bisogna valutare le proprie impressioni diagnostiche e in teoria l’elenco dei disturbi esclusi dovrebbe aumentare. anamnesi remota, se i segni e i sintomi sembrano significativi bisogna raccogliere una anamnesi premorbosa che ci permetta di indagare l’andamento del disturbo e l’anamnesi familiare. si basa sul presupposto che i disturbi psichiatrici si manifestino con un set caratteristico di segni, sintomi e comportamenti, abbiano un andamento e, alcune volte, una familiarità. L’obiettivo è classificare i disturbi del paziente e le sue disfunzione in base a categorie diagnostiche definite. cerca di scoprire i conflitti inconsci e di portarli alla coscienza del paziente, nella speranza che possano essere risolti. L’approccio è di tipo interpretativo.
ottenere un quadro completo, bisogna approfondire la possibile presenza dei disturbi che sono stati tralasciati, ponendo al paziente domande mirate e specifiche. diagnosi, bisogna organizzare le impressioni diagnostiche in una storia clinica coerente. prognosi. questi punti costituiscono dei passaggi logici, il cui ordine è spesso determinato dall’ordine seguito dal paziente. Proprio per questo non esiste una modalità di colloquio adeguata per tutti i pazienti. 3.3.2 Colloqui strutturati e semistrutturati: alla ricerca della “scientificità” La comparsa delle interviste strutturate e semistrutturate è la conseguenza dei cambiamenti del sistema diagnostico nosografico-descrittivo e rappresenta un tentativo di soluzione al problema della ridotta validità e attendibilità diagnostica. In base alle ricerche risulta che se due o più clinici valutano lo stesso paziente, spesso ottengono informazioni diverse, che portano a formulare diagnosi differenti. Le diverse informazioni ottenute sono una probabile fonte di diversità della valutazione diagnostica, in quando il processo di ragionamento del clinico si basa su dati differenti. I ricercatori hanno denominato questo problema information variance , vi è anche un secondo problema analogo: criterion variance (con criterion si intende il modo in cui il clinico formula la diagnosi). Per questi motivi si cerca di costringere il clinico a raccogliere i dati in modo preordinato e di obbligarlo a riferirsi a categorie diagnostiche precise e definite. I protocolli forniscono una serie di domande in ordine progressivo, da porre al paziente, al fine di ottenere dati in modo strutturato. La finalità delle interviste strutturate e semistrutturate si modificano quando all’interesse per la validità e attendibilità diagnostica si affianca quello per la diagnostica differenziale. 3.3.3 Colloquio specializzato a orientamento psicoanalitico 3.3.4 Colloquio specializzato a orientamento cognitivo per il paziente depresso
4. GLI ANNI ‘ Con il passare degli anni la tendenza alla differenziazione fra i modelli di disturbo psichico, che aveva portato al diffondersi dei colloqui specializzati, si riduce, riflettendo il cambio di orientamento che contemporaneamente si sta verificando nella teoria della clinica. Aumenta, all’interno delle varie scuole, la concordanza sulle aree da indagare. 4.1 L’evoluzione dei modelli di disturbo psichico: il prevalere dell’integrazione 4.1.1 Il tentativo di integrazione dei modelli Si impone una logica “economica”, vale a dire finalizzata alla valutazione e allo sfruttamento delle risorse disponibili. L’attenzione è nuovamente rivolta alla comprensione di ciò che è effettivamente terapeutico in un trattamento. Ci sono 3 fattori concomitanti che hanno reso possibile questo nuovo orientamento: una minor considerazione della validità e attendibilità della diagnosi psichiatrica il riconoscimento dei limiti intrinseci alla scelta di ateoreticità dei DSM il riconoscimento della multicausalità dei disturbi psichici I modelli per gruppi diagnostici, ad esempio la schizofrenia o la depressione, propugnano la compresenza di variabili differenti: elementi personali, cognitivi, psicologici, interpersonali e biologici, oltre che all’interazione di questi fattori con le risorse e gli stressors presenti nell’ambiente. Questo implica che, per fare una accurata indagine di questi fattori, non è possibile utilizzare un colloquio che sia la conseguenza dell’adesione a un modello di disturbo psichico. Bisogna avere a disposizione uno strumento che rispecchi la pluralità dei quadri etiologici e delle tecniche. 4.1.2 Le funzioni dello psicologo clinico e dello psichiatra Lo psichiatra è un medico a cui è affidato il compito di vedere al di là del dualismo mente-corpo, capace di trattare i propri pazienti in modo responsabile, mantenendo una buona alleanza terapeutica con loro. Deve essere capace di fare diagnosi e di formulare indicazioni al trattamento, integrando terapie psicodinamiche, farmacologiche e sociali. Lo psicologo clinico deve formulare una diagnosi e un’indicazione al trattamento, quindi deve: integrare una diagnosi descrittiva (DSM-IV), ipotesi biologiche, ipotesi psicodinamiche, ipotesi cognitivo- comportamentali e ipotesi sistemiche.