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capitolo 2 libro Serianni, Sintesi del corso di Lingua Italiana

riassunto del capitolo con le cose piu importanti da studiare

Tipologia: Sintesi del corso

2024/2025

Caricato il 12/07/2025

silvia-li-vecchi
silvia-li-vecchi 🇮🇹

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La deriva dell’antico nell’italiano di oggi
L’impronta arcaizzante ha segnato tipicamente l’italiano ed era ancora molto evidente
cinquant’anni fa, prima che la prorompente affermazione di un parlato condiviso dalla grande
maggioranza della popolazione forzasse le paratie della tradizione. Nonostante che a scuola si
studino sempre meno i grandi classici italiani del passato, una novella del Boccaccio ha
ancora un certo sapore di famiglia per un quindicenne del XXI secolo. Leggiamo:
Era questo frate Cipolla di persona piccolo, di pelo rosso e lieto nel viso e il miglior brigante
del mondo: e oltre a questo, niuna scienza avendo, sì ottimo parlatore e pronto era, che chi
conosciuto non l’avesse, non solamente un gran rettorico l’avrebbe estimato, ma avrebbe
detto esser Tulio medesimo o forse Quintiliano: e quasi di tutti quegli della contrada era
compare o amico o benvogliente [Boccaccio, Decam., VI 10 7].
Quel che più ci allontana dalla pagina del Boccaccio è la sintassi (che in B. ad esempio é
fortemente subordinativa) e in particolare l’ordine delle parole che nel Decamerone risente
dell’impronta latina e della libertà di collocazione delle parole nella frase propria di
quella lingua, a partire dalla posposizione del verbo al complemento oggetto (niuna scienza
avendo) o al nome del predicato (sì ottimo parlatore e pronto era) e dell’ausiliare al
participio (chi conosciuto non l’avesse). Per il resto, è molto ciò che ci fa sentire
linguisticamente vicino un testo come questo. In qualche caso, è vero, la grafia è diversa,
specie per quel che riguarda l’alternanza tra consonanti scempie e doppie in posizione
intervocalica (rettorico, Tulio), ma le singole parole sono in gran parte rimaste le stesse,
per forma e significato: parole grammaticali come questo, che, di, non, del, e; parole
semanticamente piene come persona, piccolo, pelo, rosso, lieto, viso.
Certi vocaboli sono usciti d’uso (benvogliente ‘benevolo’); hanno cambiato distribuzione
(quegli si adopera solo come aggettivo: quegli uomini, quegli stranieri, ma soltanto quelli
della contrada); categoria grammaticale e significato (rettorico è qui un sostantivo, non un
aggettivo, e vuol dire ‘oratore’); o anche solo significato (brigante non significa ‘bandito’ o
‘briccone’ ma ‘compagnone’; del resto usiamo ancora brigata senza implicazioni negative).
La proposizione infinitiva in luogo della completiva introdotta da che (avrebbe detto esser
Tulio ‘avrebbe detto che era Cicerone’), modellata sul costrutto latino dell’accusativo con
infinito, è uno dei tanti pezzi d’antiquariato a cui non abbiamo voluto rinunciare, nemmeno
parlando; in un contesto appena un po’ sostenuto non faremmo nemmeno caso a una frase del
genere: «Non tutti concordano essere questa la via più rapida per arrivare alla soluzione». E il
costrutto verrebbe addirittura preferito in frasi complesse, per evitare l’accumulo di che:
È certo, però, che se la Chiesa iniziasse a interpellare coraggiosamente l’artista, potrebbe
iniziare per lui un cammino nuovo verso la Verità, con esiti che, per esperienza diretta, so
essere grandi, sia nei confronti dell’opera, sia della sua stessa vicenda umana [Paolo
Biscottini, «Vita e Pensiero», 3.2005; corsivi miei].
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La deriva dell’antico nell’italiano di oggi

L ’impronta arcaizzante ha segnato tipicamente l’italiano ed era ancora molto evidente cinquant’anni fa, prima che la prorompente affermazione di un parlato condiviso dalla grande maggioranza della popolazione forzasse le paratie della tradizione. Nonostante che a scuola si studino sempre meno i grandi classici italiani del passato, una novella del Boccaccio ha ancora un certo sapore di famiglia per un quindicenne del XXI secolo. Leggiamo:

Era questo frate Cipolla di persona piccolo, di pelo rosso e lieto nel viso e il miglior brigante del mondo: e oltre a questo, niuna scienza avendo, sì ottimo parlatore e pronto era, che chi conosciuto non l’avesse, non solamente un gran rettorico l’avrebbe estimato, ma avrebbe detto esser Tulio medesimo o forse Quintiliano: e quasi di tutti quegli della contrada era compare o amico o benvogliente [Boccaccio, Decam., VI 10 7].

Quel che più ci allontana dalla pagina del Boccaccio è la sintassi (che in B. ad esempio é fortemente subordinativa) e in particolare l’ordine delle parole che nel Decamerone risente dell’ impronta latina e della libertà di collocazione delle parole nella frase propria di quella lingua, a partire dalla posposizione del verbo al complemento oggetto ( niuna scienza avendo ) o al nome del predicato ( sì ottimo parlatore e pronto era ) e dell’ausiliare al participio ( chi conosciuto non l’avesse ). Per il resto, è molto ciò che ci fa sentire linguisticamente vicino un testo come questo. In qualche caso, è vero, la grafia è diversa, specie per quel che riguarda l’alternanza tra consonanti scempie e doppie in posizione intervocalica ( rettorico, Tulio ), ma le singole parole sono in gran parte rimaste le stesse , per forma e significato: parole grammaticali come questo, che, di, non, del, e ; parole semanticamente piene come persona, piccolo, pelo, rosso, lieto, viso. Certi vocaboli sono usciti d’uso ( benvogliente ‘benevolo’); hanno cambiato distribuzione (quegli si adopera solo come aggettivo: quegli uomini, quegli stranieri, ma soltanto quelli della contrada); categoria grammaticale e significato ( rettorico è qui un sostantivo, non un aggettivo, e vuol dire ‘oratore’); o anche solo significato ( brigante non significa ‘bandito’ o ‘briccone’ ma ‘compagnone’; del resto usiamo ancora brigata senza implicazioni negative). La proposizione infinitiva in luogo della completiva introdotta da che ( avrebbe detto esser Tulio ‘avrebbe detto che era Cicerone’), modellata sul costrutto latino dell’accusativo con infinito , è uno dei tanti pezzi d’antiquariato a cui non abbiamo voluto rinunciare, nemmeno parlando; in un contesto appena un po’ sostenuto non faremmo nemmeno caso a una frase del genere: «Non tutti concordano essere questa la via più rapida per arrivare alla soluzione». E il costrutto verrebbe addirittura preferito in frasi complesse, per evitare l’accumulo di che:

È certo, però, che se la Chiesa iniziasse a interpellare coraggiosamente l’artista, potrebbe iniziare per lui un cammino nuovo verso la Verità, con esiti che , per esperienza diretta, so essere grandi , sia nei confronti dell’opera, sia della sua stessa vicenda umana [Paolo Biscottini, «Vita e Pensiero», 3.2005; corsivi miei].

Come aggettivo indefinito non si dice più niuno: ma niuno appartiene alla schiera di arcaismi tuttora mediamente noti (persino a un quindicenne scolarizzato); fa parte – non saprei dire fino a quando ciò sarà ancora vero – della competenza passiva di un italiano istruito che, all’occorrenza, se ne potrebbe servire per arguzie linguistiche a buon mercato: «Niuno venne a salutarmi», «Lungi da me, fellone!», «Non avevo più la speme di rivederti!». Definitivamente tramontato è, invece, sì ottimo: oggi sarebbe un errore marchiano graduare in qualche modo un superlativo (*così pessimo, *più massimo ecc.); ma all’epoca del Boccaccio lo statuto grammaticale era meno rigido. Facciamo un salto di quasi sette secoli e arriviamo ai giorni d’oggi. Molte forme che magari non sono arcaismi ma hanno sentore libresco e che non useremmo parlando in famiglia o anche scrivendo senza finalità espressive possono essere sfruttate da una penna esperta in funzione di registro brillante. Nel brano che segue la giornalista Guia Soncini si serve dei pronomi personali egli ed ella per creare un ironico effetto di distanziamento, anche linguistico, rispetto alla situazione (l’insofferenza per i vicini di casa, che non sanno tenere a bada i bambini):

Le (poche) volte in cui ho cercato il loro inetto padre per protestare, egli non c’era, spedito dai veri padroni di casa – i figli – a cercare qualche introvabile gameboy o pupazzo del wrestling (parlare con la madre dei piccoli selvaggi è inutile: ella mi guarda con la sprezzante superiorità delle donne che si sono riprodotte e sibila: «Certo, lei non ha figli, non può capire») [«Io donna – Corr. Sera», 11.6.2005; corsivi miei].

Un altro esempio, con una premessa. Da più di un secolo in italiano la posizione dei pronomi atoni è rigida : si ha obbligatoriamente posposizione ( enclisi ) con l’infinito (per leggerlo), con l’imperativo affermativo (leggilo!; invece, se l’imperativo è negativo: non lo leg- gere! / non leggerlo!), col gerundio (leggendolo), col participio (lettolo). Nei secoli scorsi vigevano altre condizioni d’uso. Questa regola nell’italiano antico era diversa , si stabiliva che a inizio frase l’enclisi fosse sempre obbligatoria , é il motivo per cui in celebri versi letterari troviamo l’enclisi all’inizio. Ad es. “ Vuolsi così colà ciò che si può te”. Oggi possiamo dire “si vuole”, in italiano antico a inizio frase era obbligatorio “vuolsi”. Questa ad oggi lascia una traccia, ci spiega perché quando l’imperativo è negativo l’enclisi é facoltativa, quando é affermativo posso dire solo “prendilo” , ma se è negativo posso dire sia “non prenderlo” sia “non lo prendere”, oppure “non cambiarli” o “non li cambiare”. Perché c’entra questa legge dell’italiano antico? Che differenza c’è tra “prendilo” e “non lo prendere”, “non prenderlo” alla luce di ciò detto sull’italiano antico? Quando dico “non prenderlo” o “non lo prendere”, sto dicendo NON , quindi l’imperativo non é più a inizio frase, posso avere l’enclisi o no. Quando l’imperativo è affermativo, sta per forza a inizio frase, quindi l’enclisi é obbligatoria. Quindi quella regola dell’italiano antico, ha lasciato ancora una traccia sull’uso contemporaneo dell’enclisi nell’imperativo. Nel Medioevo quindi l’enclisi era generale e senza eccezioni solo a inizio di frase («Stavvi Minos orribilmente e ringhia»: Dante non avrebbe potuto scrivere *Vi sta): proprio questa antica legge sintattica ha un suo tenue riflesso nella lingua d’oggi , che prevede l’obbligo

Quindi esso in funzione di agg. dimostrativo anaforico (in luogo di questo o del semplice articolo determinativo il ) e di alcuno come pronome indefinito (in luogo di qualcuno ; al singolare alcuno è usuale solo come aggettivo): «Né crediamo, vogliamo credere, che esso pubblico sia per ribellarsi all’istante come che constati all’esecuzione l’assenza di alcuno di questi “acuti”»;

  1. tuttavia col valore non di congiunzione avversativa , come è abituale («Si è fatto tardi: tuttavia aspetterò ancora»), ma di avverbio col significato di ‘sempre, ancora oggi’ : «della Norma di Bellini circolava ( e tuttavia circola ) un’edizione scandalosamente infedele all’originale». Un ultimo esempio. Abbiamo detto che codesto è vivo solo in Toscana (soprattutto con funzione deittica, aggiungiamo ora: cioè per collocare nello spazio qualcosa o qualcuno vicino a chi ascolta: «Togliti codesti occhiali!»; invece: «Devo cambiare questi occhiali», cioè quelli che stanno sul mio naso). L’uso anaforico è letterario. Ciò non toglie che possiamo trovarne esempi, senza nessuna particolare implicazione espressiva, sia nell’articolo di fondo scritto da un giornalista noto per le sue analisi politologiche (ma non per una sua oltranza stilistica), sia nel romanzo di un famoso intellettuale romano, alieno da sperimentalismi ma legato per frequentazioni estive alla campagna senese (Monticchiello). In entrambi i casi codesto (o addirittura cotesto) può essere considerato, ancora una volta, una suppellettile invecchiata ma non del tutto dismessa, un lampadario fuori moda che però può convivere con l’illuminazione con lampade alogene. Questi i due esempi:

Il ministro degli Esteri tedesco, Joschka Fischer, invita l’Italia [...] a chiedere per sé un seggio permanente nel Consiglio di sicurezza dell’Onu, mettendosi “in leale competizione” con la Germania, invece di chiederlo per l’Unione europea. Ma codesta “via nazionale al multilateralismo”, in Europa (nell’Ue) e nel mondo (all’Onu), ci pare francamente una insostenibile contraddizione in termini [Piero Ostellino, «Corr. Sera», 26.9.2004];

Nessuno sa, perché nessuno ormai l’ha più provato da decenni, cosa significa vangare o zappare per otto-dieci ore al giorno. La coltivazione delle patate, ad esempio, [...] si faceva a cotesto modo [Alberto Asor Rosa, L’alba di un mondo nuovo, 2002].

In molti casi le fortune di forme arcaizzanti sono state promosse dalla tradizione grammaticale: da opere illustri, come le Prose della volgar lingua (1525) di Pietro Bembo, che segnano la codificazione dell’italiano letterario, alle umili grammatichette sulle quali hanno sudato gli scolari dell’Italia unita. Vale la pena guardare da vicino sei fenomeni che erano dominanti nell’italiano dell’800’ e che oggi sono cambiati (due dei quali già incontrati paragonando italiano, francese e spagnolo): sia per apprezzare lo spostamento del baricentro normativo dalla fine dell’Ottocento ad oggi , sia per verificare quanto a lungo nelle scuole l’insegnamento della grammatica abbia coinciso con quello della lingua letteraria d’impronta arcaizzante, distaccata (quando non apertamente ostile) rispetto all’uso vivo, anche se affermato da secoli.

  1. Prima persona dell’imperfetto indicativo in -a che è la prosecuzione normale del latino, è l’imperfetto “popolare”. La “M” finale cade nel passaggio dal latino al volgare (es. MONEBAM ) e la “B” diventa “V” quindi “amava” (tipi io amava, in continuazione del lat. AMABAM / io amavo, forma sviluppatasi già nel fiorentino popolare di fine Trecento per differenziare 1a e 3a persona, ma restata a lungo ai margini della norma). Nell’uso vivo già alla fine dell’Ottocento era ormai dominante il tipo io amavo , anche grazie all’esempio del Manzoni che lo accolse nell’edizione definitiva dei Promessi sposi (1840-1842), e si basa sul fiorentino vivo, dopo essere stato a Firenze ha sentito i fiorentini colti che dicevano “amavo”, “sentivo”, ma la maggioranza dei grammatici continuava a registrare nei paradigmi solo la forma tradizionale. Soltanto nel pieno Novecento, la forma diventa dominante, ancora negli anni 20’ del Novecento c’erano imperfetti in -a (es. Pirandello).
  2. Pronome relativo cui in funzione di complemento oggetto. In italiano per molto tempo é stato usato anche al posto di “che” come complemento oggetto. L’uso è marcato in senso fortemente letterario già nel XIX secolo, anche se cui oggetto non dispiacerà a poeti pienamente novecenteschi come Montale («e sovrastano al poggio / cui domina una statua dell’Estate»). Il motivo per cui era usato questo “cui” era che quando io dico “che”, quindi “e sovrastano al poggio che domina una statua dell’Estate” , se la scriviamo con il “che”, come faremmo oggi, l’interpretazione sarebbe meno chiara. É il poggio che domina sulla statua? Nell’italiano antico hanno risolto con il “cui”. Oggi però non è più attuale, una forma che risolveva un problema è stata abbandonata. È stato favorito sia dal desiderio di evitare l’ambiguità di che , insieme soggetto e oggetto (nei versi appena citati un che domina avrebbe fatto pensare che il poggio domina la statua, non che ne è dominato); sia dalla spinta alla variatio , in presenza di un altro che contiguo, come nel seguente esempio del grande letterato ottocentesco Pietro Giordani il quale, ristampando nel 1846 il suo Panegirico a Napoleone, sostituisce un precedente che con cui perché infastidito dalla vicinanza di qualche: «qualche ritratto di quello eterno Spirito cui la vetusta sapienza riconosce autore del mondo». Il declino è sancito dai grammatici nel primo Novecento.
  3. Lui e lei in funzione di soggetto. Nell’italiano antico egli ed ella erano usati in funzione di soggetto, mentre lui e lei in funzione di complemento (egli mangia, Carlo bacia lei e non “ella”), questa differenza è sorpassata da Manzoni che usa lui e lei anche come soggetto. Prima lui e lei non erano usati come soggetto. Oggi dominano lui e lei , gli usi di egli ed ella sono minoritari, a scuola sono diffusi per puro conservatorismo. Nella lingua viva lui e lei sono dominanti oggi. Un po’ come abbiamo visto per l’imperfetto di prima persona, anche qui siamo in presenza di un tratto molto antico, a lungo guardato con diffidenza dai grammatici; fu solo il Manzoni che, immettendo ampiamente queste forme nell’edizione definitiva dei Promessi sposi, ne consolidò l’uso. A riprova del tradizionalismo dei grammatici fino agli anni Sessanta del secolo scorso, vale la pena notare che ancora in un libro di testo apparso nel 1962 si pronunciano parole severe: usare lui e lei come soggetti «è un errore, come è errore adoperare egli quando non è soggetto».