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Fortuna della Cultura Classica: Analisi della Commedia Plautina nel 'Miles Gloriosus', Study notes of Latin literature

appunti lezione fortuna della cultura classica con professor Danese

Typology: Study notes

2018/2019

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Luca Marinelli, appunti “Fortuna della cultura classica”, prof.Roberto Danese, anno 2016-2017
1
FORTUNA DELLA CULTURA CLASSICA (2016-2017)
Prof. Roberto Danese
Esame: 1-prova scritta (2 domande aperte);
2-prova orale (viene richiesta anche la traduzione dal latino).
Lezione 6-10-2016
Fortuna”, sta qui a significare “sopravvivenza” degli antichi. Formalmente si tratta di
rapportare noi oggi e la nostra cultura agli antichi: senza di loro, noi non saremmo noi
oggi. Anche oggi le icone dell’antichità classica hanno un’incidenza su molta della
cittadinanza. “fortuna della cultura” è un modo di mettere in confronto culture.
Rapportandoci con le altre civiltà, vedendo molte differenze e somiglianze, capiamo
meglio noi stessi. Quella greca e latina ci fanno conoscere, per contrasto, noi stessi, la
nostra civiltà.
Iniziamo dalle
arti figurative
. Si veda il
“calendario Pirelli 2011”
, basato sulla mitologia
classica riletta attraverso icone del presente: la modella Julian Moore è vestita da etèra
con gioielli di Bulgari (foto di Karl Lagerfeld).
Vediamo ora la
letteratura
. nel libro
“Gods behaving badly”
(in Italia uscito come
“Per
l’amor di un dio”)
di Marie Phillips (2008), gli dei greci “sopravvissuti” vivono al giorno
d’oggi a Londra e hanno però pochi poteri perché non li ricorda nessuno: Apollo predice
il futuro, Artemide fa la dog sitter, Afrodite lavora in una hotline, Eros diventa cristiano e
lavora in una chiesa. Ne venne tratto un film omonimo, di M. Turtlehaub, nel 2012.
Il poeta irlandese Seamus Heaney (1939-2013), premio Nobel per la letteratura nel 1995,
fin dall’inizio della sua produzione, scrive di un Irlanda con una situazione devastante; la
sua poesia si distingue per impegno civile ed etico. Egli ha sempre sostenuto che, se non
si fosse confrontato con Virgilio, non avrebbe potuto scrivere nulla. Nonostante questo,
non si può dire che l’abbia ripreso. Virgilio è un poeta che continua a parlare a tutte le
epoche successive alla sua: senza il suo contributo, non avremmo avuto Dante, Ariosto e
Heaney. Per lui, Virgilio era un contemporaneo, non uno da riprendere, e che poteva
benissimo parlare del nostro tempo. Per questo mixa le proprie parole con quelle
virgiliane. Si veda la poesia
“At a potato digging, III”
con
Georg. 3, 534-36
di Virgilio.
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FORTUNA DELLA CULTURA CLASSICA (2016-2017)

Prof. Roberto Danese

Esame: 1-prova scritta (2 domande aperte); 2 - prova orale (viene richiesta anche la traduzione dal latino).

Lezione 6- 10 - 2016

“Fortuna”, sta qui a significare “sopravvivenza” degli antichi. Formalmente si tratta di rapportare noi oggi e la nostra cultura agli antichi: senza di loro, noi non saremmo noi oggi. Anche oggi le icone dell’antichità classica hanno un’incidenza su molta della cittadinanza. “fortuna della cultura” è un modo di mettere in confronto culture. Rapportandoci con le altre civiltà, vedendo molte differenze e somiglianze, capiamo meglio noi stessi. Quella greca e latina ci fanno conoscere, per contrasto, noi stessi, la nostra civiltà.

Iniziamo dalle arti figurative. Si veda il “calendario Pirelli 2011”, basato sulla mitologia

classica riletta attraverso icone del presente: la modella Julian Moore è vestita da etèra con gioielli di Bulgari (foto di Karl Lagerfeld).

Vediamo ora la letteratura. nel libro “Gods behaving badly” (in Italia uscito come “Per

l’amor di un dio”) di Marie Phillips (2008), gli dei greci “sopravvissuti” vivono al giorno

d’oggi a Londra e hanno però pochi poteri perché non li ricorda nessuno: Apollo predice il futuro, Artemide fa la dog sitter, Afrodite lavora in una hotline, Eros diventa cristiano e lavora in una chiesa. Ne venne tratto un film omonimo, di M. Turtlehaub, nel 2012. Il poeta irlandese Seamus Heaney (1939-2013), premio Nobel per la letteratura nel 1995, fin dall’inizio della sua produzione, scrive di un Irlanda con una situazione devastante; la sua poesia si distingue per impegno civile ed etico. Egli ha sempre sostenuto che, se non si fosse confrontato con Virgilio, non avrebbe potuto scrivere nulla. Nonostante questo, non si può dire che l’abbia ripreso. Virgilio è un poeta che continua a parlare a tutte le epoche successive alla sua: senza il suo contributo, non avremmo avuto Dante, Ariosto e Heaney. Per lui, Virgilio era un contemporaneo, non uno da riprendere, e che poteva benissimo parlare del nostro tempo. Per questo mixa le proprie parole con quelle

virgiliane. Si veda la poesia “At a potato digging, III” con “Georg. 3, 534- 36 ” di Virgilio.

Senza Georgiche, in poche parole, non ci sarebbero stati questi versi, è come se Virgilio avesse dato le parole a Heaney. E’ una poetica, quella di Virgilio, talmente forte che può

essere usata nel contemporaneo. La poesia ricorda Scarlett di “Via col vento”, ragazza

elegantissima, che dopo la rovina si riduce a scavare con le unghie e mangiare le radici come un animale, urlando a Dio.

La poesia “Route 110” racconta di una gita a Dublino così come il libro IV dell’Eneide

racconta della discesa di Enea agli inferi. Heaney per ricordare ha bisogno dell’Eneide anche quando non parla in nessun modo di antichità. Simili processi però non avvengono solo nella nostra civiltà: ad esempio anche il Giappone sa perfettamente che la cultura greca e latina sono fondamentali. Il libro di

Murakami “Kafka sulla spiaggia” è il racconto di un bambino che vuole scappare. Si

chiama “Kafka”, cioè “corvo”, e arriva in un posto dove c’è una biblioteca che lo ospita. Oshima, il bibliotecario, lo aiuterà a a ritrovare se stesso, ricordandogli i miti greci. La storia del Giappone non ha nulla ha che fare con la cultura greca, eppure però la riprende.

Passiamo alle graphic novels: sono da considerarsi ormai letteratura in cui l’uso

dell’immagine è fondamentale. “Greek street” intreccia la Londra contemporanea con tutti

i miti greci, ed è costruita come una tragedia greca.

Per finire il cinema: partiamo da “Thermae Romae” di Takeuchi Hideki (2011), tratto

dall’omonimo manga di Mari Yamazaki, in cui era stato preso un elemento in comune tra Romani e Giapponesi: le terme. Il protagonista è Julius Modestus, un architetto senza più idee che riesce ad andare nel Giappone del futuro per poi ritornare nella Roma antica, più e più volte. I testi antichi vanno capiti bene per comprendere la trasformazione che hanno avuto nell’essere ripresi in seguito. Molti film riprendono l’antichità perché, pur essendo storie vicine a noi, sono lontane, cioè non abbiamo una visualizzazione di loro come ad esempio la avevano gli uomini del 1800. Il cinema racconta cose che sono manifestamente false ma ci fa ugualmente vivere emozioni.

“Cabiria” di Pastrone (1914) parla della seconda guerra punica ma innesta sopra questo

soggetto una storiaccia d’amore; è il primo kolossal della storia del cinema, un film veramente di livello avanzato per il suo tempo. Per avere belle didascalie, fu chiesto a D’Annunzio di scriverle, dietro lauto compenso. Lo stesso personaggio di Maciste, poi sfruttatissimo nel cinema italiano, in realtà non è mai esistito ma l’ha inventato proprio D’Annunzio, il quale aveva scoperto nell’Eclide una città chiamata Màkistos, dove c’era il tempio al dio forzuto Eracle Màkistos, da cui “Machìsto” e poi Maciste. Perciò il cinema

testo scenico invece è comunicato solo dall’inscindibilità tra parole e atti scenici degli attori. Il libro è un insieme di parole che non presuppongono qualcuno che le dica, la scena è un

insieme di parole dette (QUESTO è il teatro, sia per noi sia per gli antichi). Il mostratore

(narratore teatrale/cinematografico) è costretto a vedere la sua opera, una volta messa in scena, stravolta dal pensiero originale, anche perché al prodotto finale ci lavorano tante altre persone insieme (oltre all’autore, il regista, gli sceneggiatori …), dunque è un’istanza plurale. Per Aristotele (nella “Poetica”), il narratore equivale all’imitazione della realtà. Ci sono 3 modi di narrare secondo Aristotele:

  1. Quando il narratore rimane se stesso e non cambia (3° persona);
  2. Quando narra diventando qualcun’altro (1° persona). Aristotele pensa alla poesia come qualcosa di recitato, e dunque quando (come nell’Odissea) ci sono discorsi diretti, il cantore cambia voce;
  3. Quando c’è una scena teatrale recitata e agita da attori.

Il caso #3, rispetto agli altri, presuppone un plurale (infatti si parla di teatro), non a

caso il mostratore è un’istanza plurale.

Svetonio nella “Vita di Virgilio” racconta che il poeta Giulio Montano, invidioso di

Virgilio, avrebbe a quest’ultimo voluto rubare voce, espressione del viso e recitazione. Addirittura senza Virgilio (la persona recitante), la poesia sarebbe rimasta muta. Dunque per gli antichi la poesia era solo performativa (così come il testo teatrale scritto è muto e senza recitazione, ed è inscindibile dalla qualità dalla rappresentazione).

Testo scenico e scritturale in Plauto: Il pubblico è una componente importantissima nel teatro, esso è sempre presente (sia che sia coinvolto di più, come in Plauto, sia di meno) anche dopo lo spegnimento delle luci. All’epoca di Plauto c’era un modo di far teatro particolare, un teatro di genere:

  • Togata: commedia di ambiente romano;
  • Palliata: commedia di ambiente greco.

La Palliata di Plauto operava il “vertere” alle commedie greche di Menandro, ossia una traduzione interculturale. Anche i personaggi hanno nome greco. Le situazioni menandree, rispetto a quelle politiche di Aristofane (e dunque legate al momento), erano più facilmente adattabili al teatro romano (e in teoria anche a quello di oggi). La palliata si inscenava a Roma durante i vari “Ludi”; non c’era biglietto e nemmeno obbligatorietà come in Grecia, e alla fine si eleggeva lo spettacolo migliore. Ai tempi di Plauto era vietato costruire teatri in muratura (il primo, di Pompeo, verrà solo nel 55 a.C.) perché era una cosa troppo greca: le installazioni perciò erano in legno e temporanee. Nonostante ciò, non erano troppo dissimili dai teatri in muratura.

  • Le porte #1, #2, #3 sono di tre case diverse. Le scene sono tutti esterni;
  • Il pulpitum corrisponde al nostro palcoscenico;
  • L’ orchestra era meno importante a Roma che in Grecia. Qui infatti non c‘è coro: non si suonava, ma si danzava;
  • Nella cavea c’era il pubblico: il contatto era evidente, anche perché gli spettacoli erano di giorno. Uso del prologo:

Si presentano nelle prime pagine con un elenco, dove c’è prima il nome e vicino il tipo fisso impersonificato. argumentum e problemi paratestuali:

qui di argumenta ne abbiamo 2. Uno di essi è acrostico (dunque per forza è fatto per

essere letto, non recitato. Ergo essi sono successivi a Plauto). Altre cose che sono fatte esclusivamente per il lettore e non per lo spettatore, sono ad esempio i nomi dei personaggi all’inizio di ogni scena (probabilmente aggiunti nel II sec. d.C.  i testi originali di Plauto erano semplici canovacci. Queste parti in più costituiscono il paratesto, e non è detto che esso sia fedele all’originale, a causa di errori di copiatura e/o cambiamenti, anche del senso della commedia). prologo ritardato DOPO la scena iniziale: la scena iniziale, con Pirgopolinice (“sgominatore di castelli”) e un parassita (uno senza soldi che si attacca sempre a qualcuno per mangiare), precede sorprendentemente il prologo. Così a recitarlo può essere uno dei personaggi (lo schiavo Palestrione) e non una divinità; egli esce dalla finzione e rompe la 4° parete parlando col pubblico (per i Romani era normale). prima parte con raggiro di Sceledro: E’ incentrata sul cercare di ingannare il tonto schiavo Sceledro che dal tetto per puro caso aveva visto i due innamorati baciarsi. Palestrione gli dice che sono 2 gemelle. Si può considerare un pre-inganno di quello che verrà fatto a Pirgopolinice. seconda parte con raggiro di Pirgopolinice: Palestrione organizza una recita vestendo tutti e ingannando il soldato. Alla fine è punito molto duramente (alcuni perciò la definiscono dark comedy). standard plautini: nelle commedie plautine c’è sempre uno (B) che detiene ingiustamente qualcosa (C), e un altro (A) che la riottiene con un inganno.

A. Attante: presume in sé l’agire di 1 o più personaggi (qui sono sia Palestrione, sia il suo padroncino: entrambi alla fine vogliono fare l’inganno); B. Antagonista ; C. Cosa detenuta ingiustamente. Su questo schema si costruisce tutta la drammaturgia comica, cioè si creano le singole scene (diverse ogni volta) per coinvolgere il pubblico, e, più a fondo, organizzare musiche, battute, oggetti che facciano divertire; poniamo due battute uguali, ma scritte diversamente, poste a una breve distanza: servono per far concentrare il pubblico su un concetto che è ritenuto importante da ricordare per seguire bene la vicenda, e che dunque si ritiene necessario ribadire.

Plauto di fatto è un poeta perché scrive in versi, ed è uno dei migliori; la sua poesia infatti è ricca di effetti sonori (utili alla memoria). QUESTIONE: perché Plauto fa iniziare la commedia con una scena dialogata e non con il prologo (in cui sono narrati gli antefatti)? Teniamo conto del fatto che dal verso 78 al 947 il miles non tornerà più in scena. Artotrògo perciò ha un compito importante (pur essendo lui protatico), ossia quello di mostrare in tutto il suo grottesco la maschera del miles, in modo che il pubblico non se lo dimentichi per quasi metà commedia.

In Plauto, rispetto a Terenzio, non c’è un messaggio morale, nonostante l’happy ending. Plauto nella commedia inserisce situazioni comiche fini a se stesse, ossia gratuite e senza peso per la trama. Una di queste situazioni avviene nella prima parte della commedia, un qualcosa legato a ciò che era stato detto nel prologo di Palestrione (ossia il buco nella parete); molti si sono chiesti come mai nel prologo si accenni a questo primo inganno e non a quello più maestoso verso Pirgopolinice che è alla fine. contrapposizione: realtà VS ciò che sembra reale Pirgo vive in una realtà non reale, ossia crede di vivere in un mondo che solo per lui è così. Sceledro è solo un piccolo Pirgo, nel senso del personaggio ingannato. Egli deve vedere (tematica della vista) e vede delle cose; alla fine si farà in modo che lui creda di aver visto delle cose che in realtà non ha mai percepito. Nonostante non sia il massimo dell’intelligenza, Sceledro è più sveglio del padrone; il suo inganno parte perché egli ha visto qualcosa di vero, e verrà perciò portato a credere il virtuale ≠ Pirgo invece è portato alla verità, cosa che non ha mai visto in vita sua. Subito dopo il prologo, riparte l’azione, con Palestrione e Periplectomeno; quest’ultimo è arrabbiato coi suoi servi perché non si sono accorti che c’erano “spie” dalla casa accanto sull’impluvio, le quali hanno notato ciò che non dovevano vedere (Plauto non ce lo dice, ma lo spettatore capisce che hanno visto la ragazza passata di qua). L’unico schiavo dei vicini di cui non ha paura è, ovviamente, il complice Palestrione. Questo primo problema dà il via all’azione.

Il fatto che l’inganno avvenga anche con la complicità della donna, avvicina il “Miles” a “Elena” e “Ifigenia in Tauride”. Tutta questa prima parte dunque è quasi una commedia a sé, che potrebbe finire qui. E’ solo un finale minore (cosa simile accade in “Asinaria”, dove l’inganno minore è molto più preponderante). E’ strano il passaggio improvviso alla seconda parte della commedia, in quanto scompaiono molti elementi su cui si era molto insistito nella prima parte, come la finta gemellarità; inoltre nel prologo non si fa menzione al secondo inganno. Alcuni studiosi sostengono che tale scarto si sarebbe originato dall’attaccare insieme 2 modelli greci diversi. Più probabilmente invece è stata la tradizione a perdere qualche parte nei secoli, e a noi è arrivata con questo presunto buco. Ad esempio “L’anfitrione” ha veramente una parte mancante (Anfìtruo che si confronta col suo doppio), e ciò crea non pochi problemi nel metterlo in scena. Molière perciò si è di fatto inventato quella scena mancante nella sua omonima commedia.

Dunque, dopo l’inganno minore, Sceledro va a casa anche se ha capito che in qualche modo è stato ingannato (il vecchio lo ha perdonato troppo velocemente). Rimane in scena Periplectomeno pensando ad alta voce. Poi esce e c’è la scena vuota. Esce Palestrione di casa annunciando che hanno escogitato un piano dentro. Appare per la prima volta Pleusicle, che però è turbato perché deve coinvolgere anche l’anziano Periplectomeno. C’è un motivo drammaturgico sotto questa preoccupazione? Ricordiamoci che non ci sono fini morali in commedie plautine. Sarebbe strano pensare inoltre ad un cambio di ethos, perciò probabilmente tale scelta è legata alla struttura della commedia di Plauto. Infatti le preoccupazioni di Pleusicle servono solo a dare come conseguenza una serie di risposte inaspettate da parte di un vecchio, e dunque divertenti (lazzi fini a se stessi). Ma c’è un motivo di questa esposizione? Considerato anche che fa ridere, è tuttavia molto lungo (vv. 613-764); un’altra motivazione è quella di non rivelare subito al pubblico il piano, tenendolo ancora un po’ sulle spine: si tratta di tensione drammatica. [avviene qualcosa di simile anche in “Pseudolus”, dove Pseudolo prende tempo prima di liberare la ragazza, stringendo accordi per complicare la commedia e dunque renderla più esilarante; inoltre promette continuamente al pubblico che prima o poi farà un inganno mirabolante, senza tuttavia mai svelarlo fino alla fine].

LESSICO: Mise en abyme= gli attori fingono di essere personaggi che a loro volta recitano

fingendo di essere altri personaggi. …E Pirgo? Sarà se stesso, inconsapevole di essere in una recita, anche se è già di suo una maschera. Acroteleuzio appare come una puttana che odia il miles, astuta e senza scrupoli.

In “Miles gloriosus” ingannati (Sceledro, Pirgo) < pubblico, perché i primi non sanno come stanno le cose in realtà. Al v.947 (atto IV scena I) inizia l’inganno col ritorno del miles. C’è tuttavia un vuoto scenico, infatti tra la scena precedente e questa non rimane nessuno sul palco. Non è il primo vuoto nel “Miles”, e sembra strano, in quanto solitamente si cerca di evitarli in commedia per non far diminuire l’attenzione del pubblico (c’è però il sospetto di una falla della tradizione filologica). struttura commedia: i modelli greci utilizzati sono 2, dunque è stata necessaria una contaminatio (montare parti che potevano armonizzarsi bene col modello principale, e che dunque lo arricchivano). La prima parte dove si parla della vanagloria del miles (scena 1+

prologo) viene dall’ “Alazòn” (il “glorioso”, commedia greca), mentre la parte

dell’inganno minore appartiene ad un secondo modello, per poi tornare all’ Alazòn col

ritorno in scena del miles (tra le due parti ci sono circa 200 versi di raccordo). Del modello #2 non abbiamo il titolo, ma doveva essere un commedia simile, (altrimenti non si sarebbe potuta “incastrare”) sicuramente con una ragazza prigioniera, un espediente (parete forata), e delle maschere in comune (miles, schiavo, giovane, oltre alla ragazza). Naturalmente la contaminatio non distoglie dallo scopo finale, ossia condurre lo spettatore alla beffa maggiore. Nella seconda parte dell’ “Elena” di Euripide, quando c’è la fuga da Teoclimèno, si sottolinea l’architettura della fuga molto più del lieto fine dopo la fuga. Anche questa ideazione e attuazione, come il piano nel “Miles”, viene continuamente ritardata (è dunque una tecnica comune nel teatro, sia commedia sia tragedia, atta a mantenere la suspense). L’inganno minore che ragioni ha di esserci? Intanto fa ridere, e poi ha appunto questa funzione frenatrice sul dispiegamento dell’inganno maggiore.

Atto IV: Pirgopolinice, ingolosito da Palestrione, vuole subito conoscere la moglie di Periplectomeno, e Palestrione, inaspettatamente, lo frena. Comunque il miles elimina subito Filocomasio dalla testa.

La scena VI atto IV, dove Acroteleuzio (con Milfidippa) si dispera per le pene d’amore per il miles (fingendo di non vederlo nascosto), è poi ripreso da Rossini ne “L’italiana in Algeri” (libretto di Anelli), dove Isabella si muove in un’identica situazione scenica (qui, nascosti sono i suoi 3 pretendenti: Mustafà, Lindoro e Taddeo).

FINALE: a volte in Plauto l’avversario non è presente nella scena finale (si veda ad esempio lo “Pseudolus”), altre volte invece è in scena (come nel “Miles”, appunto, e in “Càsina”). Come è stato interpretato dai registi questo finale? Molti lo hanno ritenuto molle e nella riproposizione di qualche anno fa di Marinella Anaclerio, ad esempio, viene “riscritto”

ottenendo una ringkomposition (composizione ad anello, inizia così come è finito): infatti

la ricreduta morale del miles è solo provvisoria (nell’originale invece c’è solo questo pentimento) e poco dopo ricomincia ad atteggiarsi da sbruffone ripetendo proprio le parole dei primissimi versi.

La fortuna del “Miles” dopo Plauto:

Legenda:

Plauto viene riscoperto nel 1400 dagli umanisti, che si interessavano

soprattutto agli aspetti linguistici (per l’uso del sermo cotidianus) e a quelli artistici (per

rifondare un teatro che superasse il medioevo). Inizialmente si scoprono 8 commedie, poi il cardinale Orsini trova un tomo (codice orsiniano) con TUTTE le commedie. Così gli umanisti e le loro corti iniziano a pensare di riportarlo in scena. Gli eruditi addirittura lo mettevano in scena in latino, ma la maggior parte lo tradusse in volgare, come fece Celio Calcagnini per “Il soldato millantatore” alla corte estense. La traduzione a poco a poco Azzurro=opera Giallo=autore

per assumerli a poetica, si cimenta nella traduzione, cominciando dall’Eneide nel 1959 (non lo fa per pubblicare una sua traduzione, ma solo per dialogare con Virgilio). Nel 1960 traduce “Orestea” di Eschilo (senza sapere troppo il greco) per Vittorio Gassman che la voleva mettere in scena a Siracusa. Pasolini dice che le sue traduzioni sono per analogia (e non letterali), ma nel teatro greco ha trovato un punto di partenza, una base. Pasolini arriva così a Plauto, visto che 2 anni dopo Gassman commissiona a Pasolini il “Miles gloriosus”, e ne verrà fuori “Il vantone”. Esso è scritto, a differenza dell’ “Orestea”, in romanesco e in versi (non verrà mai messo in scena da Gassman). Nel 1963 Glauco Mauri e Valeria Morriconi lo hanno messo in scena per la prima volta (si facevano chiamare la “Compagnia dei quattro”). Il primo problema di Pasolini è stato pensare ad un pubblico che potesse accogliere la sua

traduzione, e per “dialogare” con essa. Pasolini fa un’analogia tra Plauto e avanspettacolo,

il quale diventa un filtro culturale per tradurre Plauto, e di conseguenza è normale utilizzare un dialetto (naturalmente quello “da palcoscenico”, come il napoletano di Totò, comprensibile da tutti). L’uso della rima non ha nulla di elevato, è la rima delle filastrocche/canzonette d’avanspettacolo. Il metro, col verso martelliano, è quello della grande tragedia italiana del 1700 e della commedia di Molière, riportato nell’Italia degli anni ’60. Gli schiavi parlano romanesco stretto, le puttane un italiano da avanspettacolo, i signori stanno a metà tra i primi e le seconde, e tutto ciò ricorda la caratterizzazione linguistica delle varie maschere della commedia dell’arte, così come l’avanspettacolo.

In conclusione … Plauto non è pensabile se non con le ricchezze conferite loro da tutti gli autori che l’hanno sfruttato a dovere (es. Molière). Ossia ha un valore in sé come patrimonio culturale, ma ha senso solo perché glielo conferiamo noi nel nostro mondo che è venuto dopo di lui.