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de sancito, primi capitoli, Exams of History of Italy

piccoli riassunti dei primi capitoli, in maniera dettagliata

Typology: Exams

2017/2018

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annatea_d_alessandro
annatea_d_alessandro 🇮🇹

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I SICILIANI
Il documento più antico della nostra letteratura è la CANTILENA o CANZONE DI CIULLO e una
CANZONE DI FOLCACCHIERO. Entrambe fanno parte di un’epoca letteraria giunta allo
splendore grazie a Federico II, re di Sicilia; proprio per questo i poeti di quel periodo vengono
chiamati SICILIANI. La CANTILENA DI CIULLO racconta del dialogo tra Amante e Madonna:
dove Amante chiede e Madonna nega. La lingua qui è ancora rozza, ma studiando la forma si
evince che già c’era una nuova lingua, non del tutto fissata e formata, ma che si scriveva, la quale
aveva già una sua metrica fissata.
Il latino fu sempre in uso presso la parte colta della nazione, ma questa era accompagnata dal
volgare. Questo era molto simile al romano. Con lo scemare della cultura prevalsero i dialetti; così
nei posti come le scuole e le chiuse si comincia ad usare un latino barbaro, molto simile al volgare.
Quando la cultura si risveglia, alcuni dialetti si svilupparono e cominciarono a prendere una
fisonomia civile.
La cultura italiana produsse un duplice fenomeno: restaurazione del latino e formazione del
volgare. Si cercò di scrivere un latino meno scorretto e al col tempo si provvedeva ad esprimere i
sentimenti più intimi e familiari con un linguaggio comune. Quest’ultimo si sviluppo a Palermo
dove grazie a Federico II c’era un’ottima centralità culturale, infatti nella sua corte convenivano i
colti da tutta l’Italia. I siciliani dunque trovarono un volgare cantato e scritto che era a metà via tra
il dialetto e l’italiano, il quale divenne il linguaggio dei civili.
Il problema della coltura siciliana è che non ebbe avuto un risconto nella nazione, così ci fu
un’imitazione della cavalleria: l’amore divenne un’arte, la donna concepita così com’era e così gli
uomini; però questo movimento non arrivò al popolo. Infatti l’arte diventa un mestiere, il poeta un
dilettante, tutto era convenzionale. Erano molto più vicini al sentimento popolare che alla natura,
ma aveva tutti i problemi di una poetica nata fuori dall’Italia, già meccanizzata e raffinata.
Questa coltura era nata in maniera feudale e cortigiana, ma si stava diffondendo nelle classi più
inferiori e stava acquistando un’impronta meridionale. Successivamente pero l’Italia meridionale
venne a mancare alla vita italiana e questo fece sì che la forma cavalleresca e feudale si spostò in
Toscana, così la lingua fu detta TOSCANA e i poeti TOSCANI.
I TOSCANI
I Toscani avevano uno stile semplice e lontano da ogni gonfiezza, un volgare già fino ed elegante.
Rappresentavano scene schiette dell’animo, e non pensate o astratte, vediamo un poeta sincero, che
vede con chiarezza istintiva quello che fa e che dice, non esprime i suoi sentimenti, poiché non ne
ha coscienza, ma dice le cose in modo da suscitare impressioni. A questo nuovo poeta basta il fatto
e la sua immediata impressione. Narra quello che vede e sente in modo colorito e vivace. Questa
nuova lingua è formata e surroga dei vocaboli proprii . I 3 valori fondamentali sono: proprietà,
grazia e semplicità; questi mostrano il volgare nato in Toscana. Possiamo dire che la lingua era in
evoluzione mentre il contenuto era meccanizzato e convenzionale .
Dato che in Italia nascono la teologia, la filosofia, giurisprudenza, scienze naturali e così via, la
letteratura cavalleresca diventa frivola. Nacque così l’entusiasmo della scienza, gli storici
descrivono con più colore questo movimento per la curiosità scientifica. La scienza dunque fu
madre della poesia italiana e la prima ispirazione venne dalla scuola. Il primo saggio fu
GUINICELLI. Il volgare era già formato ed era chiamato LINGUA MATERNA, aveva un uso
moderno che era in opposizione al latino. Lui gettò in questa tutto l’entusiasmo e la commozione
dettata dalla scienza e dall’astronomia. Risorge così l’immaginazione, che non è più di genere
cavalleresca ma fisica, dei fenomeni della natura. Non è ancora poesia, ma è vita reale: un fatto
scientifico analizzato da chi si illumina di un’immaginazione dettata dallo stesso pensiero.
Guinicelli racconta di un amore che contempla la bellezza tramite uno sguardo filosofico. Lui si
innamora di un’idea, quasi fosse una persona viva e ama di questa creatura la sua meditazione. Non
abbiamo ancora un poeta, bensì un’artista, dove il pensiero si muove e l’immaginazione lavora. La
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I SICILIANI

Il documento più antico della nostra letteratura è la CANTILENA o CANZONE DI CIULLO e una CANZONE DI FOLCACCHIERO. Entrambe fanno parte di un’epoca letteraria giunta allo splendore grazie a Federico II, re di Sicilia; proprio per questo i poeti di quel periodo vengono chiamati SICILIANI. La CANTILENA DI CIULLO racconta del dialogo tra Amante e Madonna: dove Amante chiede e Madonna nega. La lingua qui è ancora rozza, ma studiando la forma si evince che già c’era una nuova lingua, non del tutto fissata e formata, ma che si scriveva, la quale aveva già una sua metrica fissata. Il latino fu sempre in uso presso la parte colta della nazione, ma questa era accompagnata dal volgare. Questo era molto simile al romano. Con lo scemare della cultura prevalsero i dialetti; così nei posti come le scuole e le chiuse si comincia ad usare un latino barbaro, molto simile al volgare. Quando la cultura si risveglia, alcuni dialetti si svilupparono e cominciarono a prendere una fisonomia civile. La cultura italiana produsse un duplice fenomeno: restaurazione del latino e formazione del volgare. Si cercò di scrivere un latino meno scorretto e al col tempo si provvedeva ad esprimere i sentimenti più intimi e familiari con un linguaggio comune. Quest’ultimo si sviluppo a Palermo dove grazie a Federico II c’era un’ottima centralità culturale, infatti nella sua corte convenivano i colti da tutta l’Italia. I siciliani dunque trovarono un volgare cantato e scritto che era a metà via tra il dialetto e l’italiano, il quale divenne il linguaggio dei civili. Il problema della coltura siciliana è che non ebbe avuto un risconto nella nazione, così ci fu un’imitazione della cavalleria: l’amore divenne un’arte, la donna concepita così com’era e così gli

uomini; però questo movimento non arrivò al popolo. Infatti l’arte diventa un mestiere, il poeta un dilettante, tutto era convenzionale. Erano molto più vicini al sentimento popolare che alla natura, ma aveva tutti i problemi di una poetica nata fuori dall’Italia, già meccanizzata e raffinata. Questa coltura era nata in maniera feudale e cortigiana, ma si stava diffondendo nelle classi più inferiori e stava acquistando un’impronta meridionale. Successivamente pero l’Italia meridionale venne a mancare alla vita italiana e questo fece sì che la forma cavalleresca e feudale si spostò in Toscana, così la lingua fu detta TOSCANA e i poeti TOSCANI.

I TOSCANI

I Toscani avevano uno stile semplice e lontano da ogni gonfiezza, un volgare già fino ed elegante. Rappresentavano scene schiette dell’animo, e non pensate o astratte, vediamo un poeta sincero, che vede con chiarezza istintiva quello che fa e che dice, non esprime i suoi sentimenti, poiché non ne ha coscienza, ma dice le cose in modo da suscitare impressioni. A questo nuovo poeta basta il fatto e la sua immediata impressione. Narra quello che vede e sente in modo colorito e vivace. Questa nuova lingua è formata e surroga dei vocaboli proprii. I 3 valori fondamentali sono: proprietà, grazia e semplicità; questi mostrano il volgare nato in Toscana. Possiamo dire che la lingua era in evoluzione mentre il contenuto era meccanizzato e convenzionale. Dato che in Italia nascono la teologia, la filosofia, giurisprudenza, scienze naturali e così via, la letteratura cavalleresca diventa frivola. Nacque così l’entusiasmo della scienza, gli storici descrivono con più colore questo movimento per la curiosità scientifica. La scienza dunque fu madre della poesia italiana e la prima ispirazione venne dalla scuola. Il primo saggio fu GUINICELLI. Il volgare era già formato ed era chiamato LINGUA MATERNA, aveva un uso moderno che era in opposizione al latino. Lui gettò in questa tutto l’entusiasmo e la commozione dettata dalla scienza e dall’astronomia. Risorge così l’immaginazione, che non è più di genere cavalleresca ma fisica, dei fenomeni della natura. Non è ancora poesia, ma è vita reale: un fatto scientifico analizzato da chi si illumina di un’immaginazione dettata dallo stesso pensiero. Guinicelli racconta di un amore che contempla la bellezza tramite uno sguardo filosofico. Lui si innamora di un’idea, quasi fosse una persona viva e ama di questa creatura la sua meditazione. Non abbiamo ancora un poeta, bensì un’artista, dove il pensiero si muove e l’immaginazione lavora. La

scienza genera arte. Il difetto di Guinicelli è della sua qualità, in quanto la sua profondità diventa sottigliezza e la sua immaginazione retorica, in quanto vuole esprimere sentimenti che non prova. Ad Arezzo si afferma GUITTONE, in lui notiamo l’UOMO : forma spora e rozza, ma con la fisionomia originale e caratteristica, una certa elevatezza morale e un’energia espressiva, non è un uomo innamorato, ma morale e credente. I versi di Guittone non sono rappresentazione immediata della verità ma sottoli discorsi che dovevano portare meraviglia al pubblico scolastico. Lui non era un poeta, ma un ragionatore in versi, privo di grazia. A Todi abbiamo JACOPONE, sono poesie di un santo animate dal divino amore. Lui vuole dare sfogo all’anima traboccante di affetto ed esaltare il sentimento religioso. In lui c’è una vena schietta e popolare dall’ispirazione spontanea. È un sentimento religioso senza teologie o scolasticismo. Parla di spirito, Dio, Vergine, santi e angeli con dimestichezza e li dipinge con una naturale immaginazione, molto libera. Veste il divino di affetti umani e lo sveste della purezza. Jacopone non è un’apparizione isolata, ma si collega a tutta una letteratura latina popolare, animata dal sentimento religioso. Nota che prevale in Jacopone è il suo essere grottesco, il fatto di saper mescolare cose sconnesse , lo rende comico con ingenuità, dunque è grottesco. Lui non tange minimamente la realtà , per lui la realtà non è ancora spiritualizzata dall’arte. Questi uomini erano accumunati dalla vita politica del comune, che però era troppo reale, appassionata, presente, per poter esser vista come misura d’arte. In questa primitiva forma di satira politica si evince un volgare condotto alla perfezione, con un acuto ingegno fiorentino. La scienza , dunque, era un mondo nuovo, era paragonata al Vangelo in quanto tutti la imparavano ma nessuno ne discuteva. BRUNETTO si occupò della scienza in maniera rozza e grezza, lui tirava fuori tutto ciò che sapeva esattamente come la scuola glie lo aveva insegnato, senza far passare il

suo pensiero. L’amore a questo punto diventa materia di teologia e filosofia. Il lettore adesso disprezza il fenomeno amoroso e cerca la scienza. L’esistente è il velo del pensiero: il corpo è velo dello spirito, la donna è la forma di perfezione morale e intellettuale; dunque spiritualismo e idealismo platonico si fondono in un’unica dottrina. L’allegoria diviene una forma fissa per esprimere un pensiero teologico o filosofico. Nella poesia entra l’allegoria il nudo concetto scientifico. CINO, CAVALCANTI e DANTE sono poeti e scienziati. Cino maestro di Petrarca fu l’uomo che diede più luce alla civil giurisprudenza, poi l’amore per Selvaggia lo rende poeta. La sua composizione è piena di esagerazioni, che rivestono la donna di salute, e queste sono dettate dall’impeto della passione. Dunque il tempo dei poeti spontanei e popolari è ormai finito. Il nuovo poeta scrive con intenzioni, adesso il poeta rappresenta il lume della scienza : BRUNETTO LATINI enciclopedico, CINO giureconsulto dell’età, CAVALCANTI filosofo, DANTE dottore dei suoi tempi. Questi scrivono versi per spiegare la verità dei fenomeni dello spirito e della natura in maniera popolare. La poesia dunque diventa la bella veste della verità. In loro vi è un’intenzione scientifica, ma anche artistica. Cino ha come impresa principale quella di sviluppare elementi musicali della lingua e del verso. In Cavalcanti la perfezione tecnica era scienza. In Guinicelli lingua e poesia erano accessori, ornamenti, la vera sostanza era la filosofia. Guinicelli fu più dotto che scienziato, ebbe benemerito della scienza perché seppe come divulgarla, ma fu più artefice che artista, poiché spese molto nella parte meccanica e tecnica della forma. Guinicelli è il primo poeta italiano che merita questo nome, poiché fu il primo ad avere il senso e l’affetto del reale. La poesia di adesso narra e rappresenta con grazia e finezza, di cui Guinicelli ne aveva la perfetta padronanza. I concetti sono gli stessi dei trovatori, ma realizzati, non solo ornati, sono trasformati in sostanza. In queste poesie si sente l’anima dello scrittore. In questa poesia lo scienziato sparisce e con se la filosofia, nasce tutto da dentro, naturalmente, in m odo sobrio, con perfetta misura tra sentimento ed espressione. Il poeta scrive di sé stesso, scrive il suo stato d’animo in un certo momento, volendosi sfogare. Questo però non accade in tutti gli scrittori dell’epoca: LENTINO, GUITTONE rimangono al DOLCE STIL NUOVO, dover si esagera, i sentimenti si espandono, solo per gradire ai lettori. Di questo dolce stil nuovo l’ideatore fu GUINICCELLI, colui che lo mise su fu CINO e il massimo poeta fu CAVALCANTI. Dunque a Firenze era nato il nuovo senso della forma, si comincia a sentire in molti poeti l’amore del bello stile.

credettero di vincerla con la retorica, ornando con conetti vaghi. Anche Dante credeva di rendere poetica la filosofia, ma continuava ad essere nudo fino alla rozzezza. Per questo non corre agli ornamenti al fine di ornare, ma per rendere palpabile il concetto. Lui non opera sulla sua mente, ma su tutto il suo essere. Questa sua fede assoluta in quel mondo non lo rende poeta. La fede è la base: la condizione preliminare e necessaria della poesia, ma non è poesia. Dante non fu santo, né filosofo, ma fu poeta. Il poeta deve essere credente, ma ogni credente non è poeta. L’immaginazione ti dà l’ornato e il colore, la lisci a superficie; la fantasia è la facoltà creatrice, l’immaginazione è plastica, la fantasia lavora al di dentro, l’immaginazione è analisi, la fantasia è sintesi. La creatura dell’immaginazione è l’immagine finta in sé stessa e opaca, la creatura della fantasia è il fantasma, figura abbozzata e trasparente, che si compie nel tuo spirito. L’immaginazione ha molto di meccanico, la fantasia è essenzialmente organica, ed è un privilegio di pochi poeti. Il mondo lirico di Dante resiste all’immaginazione, non è che un mondo retorico e artificiale, di bella apparenza, ma freddo e astratto. L’organo naturale di questo mondo è la fantasia. Il concetto non ha bisogno di essere illuminato da un’immagine tolta al di fuori, è trasformato, è esso medesimo l’immagine. In quest’opera di trasformazione si rivela la fantasia. La donna astratta e anonima del trovatore, l’esemplare di ogni bellezza e ogni virtù, è persona viva ed è Beatrice. Dante dunque si immedesima così tanto nel suo mondo intellettuale e mistico, che la sua fantasia non può oltrepassarlo, non può materializzarlo. La sua immagine è ricordevole e trascendente, appena abbozzata e scorporata, fatta impressione e sentimento, esprime non quello che lei è, ma quello che lei appare. Quello che è più chiaro non è il corpo, ma lo spirito, non l’immaginazione, ma il parere, l’impressione. Beatrice è paragonata a Dio, non la vedi, ma la senti nel mondo pieno di lei. La vita e la morte di Beatrice non sono in lei, ma negli altri, in quello che lei fa sentire.

L’immaginazione si trasforma immediatamente in sentimento. E questa immagine spiritualizzata è quella mezza realtà che si chiama fantasma, che esiste più nell’immaginazione del lettore che nell’espressione del poeta. Il fantasma non è che il presentimento, forma preparatoria di questo regno del puro spirito. Ora la luce intellettuale dissipa ogni ombra, sei nel regno della filosofia, dove tutto è posto con chiarezza. Poiché la filosofia non è potuta diventare virtù, rimane una realtà puramente scientifica e dottrinale. L’impressione ultima è che la terra è il regno delle ombre e dei fantasmi, la selva del vizio e dell’ignoranza, la tragedia che ha per la sua inevitabile fine , la morte e il dolore, e che la realtà, l’eterna e divina commedia, è nell’altro mondo. Il mistero di questo mondo religioso-filosofico è la morte gentile, come il passaggio dall’ombra alla luce, dal fantasma alla realtà, dalla tragedia alla commedia, o come dice Dante: alla pace. La morte è il principio della vita, è la sua trasfigurazione; proprio per questo il vero centro di questa lirica è il sogno della morte di Beatrice. Il fantasma spesso è più simile ad un’allegoria che ad una realtà, è stazionario, senza successione e senza sviluppo, senza storia. La realtà è pura scienza, on forma scolastica. Si può dire che quando comincia la realtà allora muore la poesia e s’inaridisce la fantasia e il sentimento. Dante si mostra più poeta che artista. Questo mondo che lui scorge è troppo serio, per essere contemplato con sereno istinto dell’arte. A lui non importa che la superficie sia scabra, ma che sotto ci sia qualcosa che si muova. Perciò spesso risulta arido e rozzo.

LA PROSA

Alla formazione del volgare contribuirono molto anche i favoleggiatori, i quali raccontavano novelle nelle corti, così come i rimatori poetavano d’amore. I rimatori attingevano al codice dell’amore, i novellatori attingevano ai romanzi. Questa letteratura produsse molte traduzione. Ma quando il racconto era contemporaneo era vero, quando usciva dai tempi, vi subentrava l’infanzia della cultura, e comparivano errori dati dalla credulità. In queste la lingua è ancora rozza e incerta, le desinenze ancora goffe o dure, sgrammaticature frequenti, nessun indizio di periodo, nessun colorito, non c’è ancora l’ ‘io’, la personalità dell’autore. La prosa cavalleresca non attecchì molto in Italia. Se il romanzo e la novella non è diventata popolare, e nemmeno un lavoro d’arte, è perché la materia poetica si dimostrò quando la lingua e l’arte erano ancora all’infanzia, e rimasero fuori dalla vita dai costumi, uscendone come un frivolo

passatempo , trattato da illetterati; proprio per questo non si sviluppò, risorgono allora i classici e la scienza. Chierico: dotto; questo tendeva a restringere a pochi la dottrina e a farne un privilegio, i laici invece tendevano a diffonderla e a volgarizzarla, per farne un patrimonio comune, aprendo questa vita a tutte le classi, costruendo un laicato colto e operoso, a cui non bastava il latino, che si formava nelle scuole, superbo nella scienza, in comunione con le altre classi, che aveva idee in comune e che costruiva la base della cultura. Erano nuove forze che entravano in azione e davano un indirizzo alla vita italiana. Le idee religiose non dovevano avere grazia, la semplicità e la rozzezza di esposizione doveva gradire poco agli uomini, che codificavano e sillogizzavano. Non si estinse la razza dei novellatori, ma furono allontanati. La società mirava a divulgare la scienza, e fare sua tutta la cultura passata, profana e sacra. Il volgare divenne l’istrumento naturale di questa cultura. I poeti bandivano la scienza in versi, i prosatori traslavano dal latino gli scrittori classici. Era un movimento di erudizione e di assimilazione dell’antichità, che durò molto ed ebbe ottimo risultati sulla nostra letteratura. La materia a cui più volentieri si volgevano i traduttori era l’etica e la retorica. L’impulso fu tale che gli uomini più chiari si volsero a tradurre o comprendere grammatiche, retoriche, trattati di morale, di fisica, di medicina. Secondo la retorica di quel tempo si diceva FIORE quel raccogliere il meglio degli antichi e offrirlo al pubblico come un bel mazzetto. E si diceva anche GIARDINO come spiega GIAMBONI, lo vedeva come un giardino di consolazione, perché nel giardino si trovano fiori e frutti, così nella sua opera si trovano molti begli detti, i quali indolciscono e consolano l’animo del lettore. Altrimenti veniva anche detto TESORO come mostra di ricchezze e pietre preziose, oppure CONVITTO mostra di vivande. Ma più importanti erano i trattati speciali

dove gli scrittori mostravano qualche originalità. Il luogo che teneva la fede, venne occupato dalla filosofia, non che la filosofia negasse la fede, ma sotto quella forma si afferma la società colta, distinguendosi dai semplici e dagli ignoranti. Il luogo comune di tutte le invenzioni era l’eterno Giobbe, l’uomo colpito dall’avversità che maledice prima alla vita e poi trova rimedio e consolazione nella filosofia, ovvero nello studio della scienza, nella visione delle opere divine e umane. Così il secolo si chiude con uno stesso concetto, esposto in prosa e in poesia. Brunetto, Giamboni e Dante s’incontrano nella stessa idea. Lo scrittore è più intento a raccogliere che a produrre. Fra tanti fiori e giardini e tesori manca l’albero della vita, l’anima impressionata e fatta attiva che produca. C’è un lavoro di traduzione e compilazione, non c’è ancora un lavoro assimilazione e tanto meno di produzione. Le ricchezze son tante, che tutta l’attività dello spirito è consumata a raccogliere. Si sente una stanchezza a leggere queste traduzioni o compilazioni. Nessun movimento d’immaginazione o di affetto, nessun vestigio di narrazione o descrizione, l’esposizione didattica, il trattato, riempie l’intelletto, ma uccide l’anima. La gloria di questo secolo, cominciatore della civiltà, è di aver preparato il secolo dopo, lasciandogli in eredità cognizioni fatte volgari, e la lingua e la poesia formata nella sua parte tecnica.

I MI STERI E LE VISIONI

Due sono le fonti di quella letterature primitiva: la cavalleria e le scritture sacre. L’eroe della cavalleria: è l’uomo che si sforza a realizzare in terra la verità e la giustizia, di cui è immagine la donna, culto dell’amore. La vita à attiva e piena di avventure, con fatti meravigliosi. La sua presenza si sente: nelle liriche, nelle novelle e nelle cronache. Ma la cavalleria non si sviluppò, non produsse nessuna opera straordinaria, perse il suo carattere serio e religioso, retando un puro gioco d’immaginazione. L’idea religiosa invece, penetra nei sentimenti, nei costumi e nella vita. L’eroe cristiano è chiamato cavaliere di Cristo, ma è un eroe contemplativo, rinuncia ai beni terrestri. In fondo hanno la stessa idea: di cui uno è soldato e l’altro è sacerdote. Certo i due entrano spesso l’uno nelle vesti dell’altro. Ma il cavaliere, gettandosi nelle avventure più strane dimentica il cielo, attirando l’attenzione al meraviglioso, l’altro al contrario, passa la vita a digiunare, nella povertà, nella castità e orazione, tenendo sempre più viva l’immaginazione dell’altro mondo. Nelle tre allegorie sull’anima pubblicate dal Palermo compaiono tre esseri, i tre gradi della santificazione :

generalità, dagli corpo e persona, sarebbe sembrato una profanazione. Lo spirito mirava a rendere accessibile quella dottrina per via di esempli, di sentenze e di allegorie, come si vedeva nella Bibbia. Il reale, il concreto non aveva valore se non come figura della dottrina. L’uomo colto, schivo delle forme semplici e volgari dell’umile credente, mira a trasformare quella dottrina in un contenuto scientifico, e la traduce nelle forme scolastiche, e di questa fede ragionata e sillogizzata fa la filosofia, figlia di Dio. Lo studio del secolo è di allegorizzare e dimostrare, anziché di rappresentare, è di chiarire quel contenuto, lumeggiarlo, volgarizzarlo, ragionarlo, anziché coglierloin azione e nell’atto della vita. Perciò l’opera letteraria tiene dell’allegoria e del trattato, e ciò che è mera rappresentazione rimane nell’infanzia. Lo scrittore ti pare quasi estraneo alla società e alle sue lotte, e dimora nell’astratta e monotona generalità della sua contemplazione. La vita e la realtà è il senso, la carne, il peccato, e lo scrittore o guarda e passa, o se pur vi si trattiene, è per maledirla, rappresentandola non per quello che appare in terra, ma per quella dell’altro mondo. La rappresentazione è dunque la visione della realtà, come sarà dopo la morte, e si li spazia l’immaginazione. La visione è spesso la pittura delle pene dell’inferno, lasciate alla libera immaginazione dei peccatori. Da queste visioni e misteri è possibile sviluppare un concetto: attaccarsi alla vita come cosa sostanziale, è peccato; la virtù è la negazione della vita terrena, e contemplazione dell’altra; che la vera realtà non è quello che è, ma quello che deve essere, ed è perciò la scienza, o la verità, come concetto, e come contenuto, è l’altro mondo. Appunto questo mondo resiste ad ogni sforzo d’individuazione e di formazione. Lo stesso amore, così potente, non ci può gittare un po' di calore e non ci vive se non come figura e immagine dell’amore divino. La donna, come donna, è peccato; essa diviene una specie di medium che lega l’uomo a Dio. La donna di quel secolo ha il nome e la forma di Beatrice, la fanciulla uscita dalle mani di Dio, una

breve apparizione sulla terra che la riporta subito in cielo. La sua vera vita comincia dopo la morte. Lei è luce mentale, verità, scienza e filosofia. È pura scienza incapace di rappresentazione, nella sua forma scolastica di trattato e di esposizione, è scienza non ancora realizzata, non è ancora corpo, è idea, è didattica, non è commedia o rappresentazione. Il secolo decimoterzo si chiudeva, lasciando una lingua già formata, molta varietà di forme metriche, una poetica, una retorica, una filosofia, ed un concetto di vita ancora didattico e allegorico, con rozzi tentativi di formazione e individuazione. Il suo primo individuo poetico è Beatrice. Un mondo ancora involto nel grembo della scienza, ancora fuori dalla vita.

IL TRECENTO

Quello che il secolo precedente concepì e preparò, fu realizzato in questo secolo detto aureo. I posteri compresero sotto questo nome tutto un periodo letterario, dove si trovavano mescolati dugentisti e quattrocentisti. Questo secolo si apre con un grande atto, il giubileo. Tutta la cristianità accorse a Roma. Il nuovo secolo cominciava, consacrando in modo tanto solenne il pensiero comune della verità della cultura. Il giubileo ci da l’immaginazione di quello che doveva essere il secolo decimoquarto. Ebbe dal secolo antecedente la sua materia, i suoi strumenti e il suo concetto, del quale il giubileo fu una splendida manifestazione. Ma quel concetto , rimasto nella sua astrazione intellettuale e allegorica, con cosi scarsi inizii di rappresentazione nei misteri e nelle visioni, ancora con il solo nome di Beatrice. Ebbe nel trecento la sua vita, e venne perfetta individuazione e formazione: questo fu il carattere e la gloria di quel secolo. L’uomo che doveva dare il suo nome al secolo, era Dante. Usciamo dalle astattezze dei trattati e delle raccolte sotto il nome di ‘fiori’ ‘giardini’ ‘tesori’, ed entriamo nella realtà della vita nel vero giardino dell’arte. Perché questi uomini non ragionano, non disputano e di rado citano; ma narrano quel medesimo che si rappresentava nei misteri, vite, leggende, e visioni, e sono narrazioni più schiette, dove ci sono i desideri, la purità e la sincerità delle prime ispirazioni. Gli scrittori sono tutti frati, ed hanno la qualità degli uomini solitari. Hanno l’ingenuità di un fanciullo che sta con gli occhi aperti a sentire. L’immaginazione concitata dalla solitudine presenta gli oggetti così vivi e proprii, che vengono fuori di getto, non solo figurati, ma animati e coloriti, caldi ancora dell’impressione fatta sullo scrittore. Nel quale l’affetto è tanto più vivace impetuoso e lirico, quanto la vita è più astinente e compressa. Non ci è in questa prosa

alcuna intenzione artistica, nessun vestigio di studio, o di sforzo, o di esitazione, o di scelta; manca soprattutto il nesso, la distribuzione, la gradazione. Ma si conseguono tutti gli effetti dell’arte. Quelle virtù allegoriche che escono in processione sulla scena sono le opere, le volontà, le passioni e i pensieri dei santi. E la divina commedia, la trasfigurazione e la glorificazione dell’anima di Beatrice, porta all’estasi, al colloquio con Dio. Quel concetto è uscito dall’astratttezza della scienza e dell’allegoria, della sua vuota generalità, e si è incarnato, è divenuto uomo. La prosa italiana in questa letteratura acquista evidenza, colorito, caldezza di affetto, in un andar semplice e naturale, semplicemente quando vi si esprimono sentimenti dolci e ingenui. È perfetto esemplare di stile cristiano. Alla sua perfezione manca un più sicuro nesso logico, maggiore sobrietà, e scelta di accessori, e di formazione grammaticale, che doveva essere più meccanica e corretta. I romanzi operavano sul popolo non meno vivamente della letteratura spirituale. Ma la letteratura cavalleresca rimase stazionaria, e non produsse alcun lavoro originale. Le traduzioni sono fatte senza intenzioni serie, in prosa scarna e trascurata, posto il diletto nel meraviglioso dei fatti. Agli stessi traduttori è materia frivola, e non vi partecipano, non sentono dentro il loro mondo e la loro vita. Quelli che scrivevano cronaca, ne scrivevano con qualche intenzione artistica, la dettavano in latino, e la chiamavano storia. Latini erano anche i trattati scientifici, e i lavori propriamente dell’arte. Quella letteratura cavalleresca e spirituale rimane circoscritta al popolo, ed era poco tenuta in poco conto dai dotti. Qui non c’è più l’uomo politico, ci è la realtà vista a un aspetto puramente morale e religioso, come gli ascetici, il concetto è lo stesso, materia è diversa. Tra i proscritti ci fu Dante, condannato in contumacia non rivide più la sua patria. Tutte le passioni che possono covare nel petto di un uomo lo accompagnarono durante l’esilio. Dopo la morte di Beatrice si diede allo studio, tanto da rovinare la sua vista. Finisce la VITA NUOVA con la speranza

di dire di lei quello che non era mai stato detto. E fece di questo suo primo e unico amore la bellissima e onestissima figlia dell’imperatore dell’universo, alla quale Pitagora pose il nome di filosofia. Frutto di questi nuovi studi furono le canzoni le sue canzoni allegoriche e scientifiche. Tra questi studi nacque la seconda Beatrice, luce spirituale, unità ideale, l’amore che congiunge intelletto e atto, scienze e vita. Beatrice divenne simbolo e la poesia vanì nella scienza. Dante per cessare da sé l’infamia e per mostrare la dottrina nascosta sotto la figura dell’allegoria, volle commentare le sue canzoni egli stesso. Era dottissimo, parlò di tutto con chiarezza e con padronanza della materia. Celebra il latino come perpetuo e non corruttibile, il latino è più virtuoso, bello e nobile. Ma appunto per questo motivo il commento in latino non sarebbe stato soggetto alle canzoni, scritte in volgare, ma sovrano , e il commento per la sua natura è servo e non signore, e deve ubbidire non comandare. Questa novità di scrivere la scienza in volgare gli sembrò grandiosa, tanto da dedicare 8 capitoli a sua difesa. Scrisse in volgare le rime, il volgare era suo amico, dal quale non si sa dividere. Però egli scrive questo commento in latino, mostrando la sua virtù che si manifesta anche in prosa, senza rima e ritmo, come una donna. Il latino continuò a prevalere , egli medesimo lasciato a mezza via il Convito tratto in latino la retorica e la politica, che insieme con l’etica era ,materia ordinaria dei suoi trattati scientifici. Il libro DE VULGARI ELOQUIO è un accozzamento di regole astratte cavate dagli antichi, è vera critica applicata ai tempi, con giudizi nuovi e sensati. La base di tutto, la lingua nobile. Voleva fare del volgare quello che era il latino, la lingua perpetua e incorruttibile degli uomini colti, sogno simile a quello di una lingua universale. Il trattato DE MONARCHIA è diviso in 3 libri : 1 dimostra la perfetta forma di governo : la monarchia, 2 prova ad incarnare questa forma all’impero romani, 3 stabilisce le relazione tra impero e sacerdozio. L’eccellenza della monarchia è fondata sull’unità di Dio e dell‘imperatore, fin qui guelfi e ghibellini erano d’accordo. E ne infierivano che nella società ci sono 2 poteri, lo spirituale e il temporale, il papa e l’imperatore. Dante ammetteva le premesse e per fuggire alla conseguenza che spirito e materia fossero ciascuno con vita proprio, deduce l’indipendenza dai due poteri. Questa era l’utopia dantesca o piuttosto ghibellina. Dante di ciò ne fece un sistema e uno stato filosofico. Per Dante Roma doveva essere la capitale del mondo. Guelfi e ghibellini avevano in comune la persuasione che la società era corrotta e disordinata e perciò chiedevano il paciere. La selva è l’immagine di partenza, l’immagine della corruzione, sia dei guelfi che dei ghibellini. Ma i guelfi erano dalla parte del papa e i ghibellini dalla parte dell’imperatore.

purgatorio, successivamente Beatrice lo accompagnerà nel paradiso e giunge alla faccia di Dio. Allegoricamente Dante è l’anima, Virgilio la ragione, Beatrice la grazia, il mondo della giustizia e della pace il regno di dio. Dovendo la figura rappresentare il figurato, non può essere persona libera e indipendente, come richiede l’arte, ma semplicemente personificazione o segno d’idea. L’allegoria dunque allarga il mondo dantesco, e insieme lo uccide, gli toglie la vita propria e personale, ne fa il segno o la cifra di un concetto a sé estrinseco. Hai due realtà distinte, ambedue incomplete e astratte. La figura, dovendo significare non sé stessa, ma un altro, non ha niente di organico e diviene un accozzamento meccanico mostruoso, il cui significato è fuori di sé, come il Grifone del purgatorio, l’aquila del paradiso e Lucifero. La poesia perciò non fu accetta, se non come simbolo e veste del vero, l’allegoria fu una specie di salvacondotto, per il quale poté riapparire fra gli uomini. Dante definisce la poesia banditrice del vero. La poesia è una bella menzogna, che non ha alcun valore, se non come figura del vero. Con questa falsa poetica Dante lavora sopra idee astratte. La patria dell’anima è il celo. L’anima, uscendo dalle mani di Dio, è sempliciotta, ma ha due facoltà innate, la ragione e l’appetito. L’appetito la tira verso il bene. Ma nella sua ignoranza non sa discendere il bene, segue la sua falsa immagine e si inganna. L’ignoranza genera l’errore e l’errore genera il male. Il male o il peccato è posto nel piacere sensuale. Il bene è posto nello spirito: il sommo bene è Dio. A questo fine gli è stata data la ragione come consigliera. La ragione per mezzo della filosofia ci da la conoscenza del bene e del male. La moralità è la bellezza della filosofia, è l’etica la regina della scienza. L’amore può essere sementa di bene e di male, secondo l’oggetto a cui si volge. Il falso amore è appetito non cavalcato dalla ragione. Il vero amore è studio della filosofia. La filosofia è amicizia dell’anima con la sapienza. Ciascun uomo ha acquistato la virtù di

salvarsi con l’aiuto di Dio. Guidato dalla ragione e dalla fede, fortificato dall’amore e dalla grazia. Questo cammino dal peccato allo spirito comprende tutto il circolo della morale o etica. La conoscenza della morale è necessaria alla salute. L’inferno è la figura del male o del vizio, il paradiso è la figura del bene o delle virtù, il purgatorio è il passaggio dall’uno all’altro mediante pentimento e penitenza. Dante si trova in una selva oscura, stato d’ignoranza, vede il dilettoso colle, la beatitudine, illuminato dal sole, la scienza, ma tre fiere, la carne e gli appetiti sensuali, gli tengono il passo. Virgilio, ragione e amore, lo guida, succede Beatrice, ragione sublimata a fede e amore sublimato a grazia. Con questo aiuto esce dallo stato di ignoranza e prende il cammino della scienza. Si affaccia prima all’inferno dove conosce il male, poi entra nel purgatorio dov’è pentito e diventa libero, sale in paradiso è conosce il pene e l’amore di Dio. Con questo fondo generale si lega tutto lo scibile di quel tempo, metafisica, morale, politica, storia, fisica, astronomia, ecc.. Bisognava dunque volgarizzare la scienza, darle uno scopo morale, drizzarla all’opera. Ecco l’importanza che ebbe l’etica e la retorica, la scienza dei costumi e l’arte della persuasione. Il mistero dell’anima era dunque o rozza come nelle letteratura popolare, o trattato e allegoria come nella letteratura dotta e solenne. Prese quella rozza e volle farne una prefazione del vero, l’allegoria della scienza. Da questa intenzione non ne poteva uscire arte. La poesia dunque si riduce a un puro abbigliamento esteriore, ma non se ne incorpora. Questo connubio tra scienza e poesia, che egli chiama Convivio è un eterno matrimonio, un eterno due. La poesia può farle preziosi doni, ma non possederla. L’allegoria è una prima forma provvisoria di arte. E poiché nel figurato c’è qualcosa che non è figura, e nella figura c’è qualcosa che non è nel figurato, la realtà diventa allegorica ed è necessariamente guasta e mutilata. La realtà non ha vita propria, anzi non ha proprio vita, l’interesse è del tutto figurato, nel pensiero. Ora il pensiero è oscuro e cessa di ogni interesse. La selva è figura della vita terrena. Talora la figura dimentica il figurato e il figurato strozza la figura. Il pensiero non è calato nell’immagine , non è calato nella figura. Abbiamo le forme iniziali dell’arte, ma non abbiamo ancora l’arte. L’allegoria gli ha dato l’abilità di ingrandire il suo quadro e fondere con il mondo cristiano tutta la cultura antica, mitologia, scienza e storia, togliendogli la libertà e la spontaneità della vita, divenuto pensiero e figura. Dante, amico della filosofia, contemplando il regno divino, se ne fa non solo il filosofo, ma profeta e apostolo, rivelandolo e predicandolo agli uomini, diventando il missionario dell’altro mondo. Ne parla con il linguaggio della scienza. Come si vede, il mondo politico entra a far parte di questi

discorsi, ma politica non era ancora una scienza a fini e mezzi suoi: era appendice dell’etica e della retorica. Oltre a ciò Dante era anche poeta, e afferma che poeta vuol dire profeta, banditore del vero. Era poeta e si ribella all’allegoria. La favola, ciò che lui chiama bella menzogna, lo scalda. Come in tutti i lavori d’arte si distingue il mondo intenzionale e il mondo effettivo, ciò che il poeta vuole e ciò che il poeta fa. L’uomo non fa quello che vuole ma quello che può. Il poeta si mette all’opera con la poetica, le forme, le idee e le preoccupazioni del tempo, e meno è artista più il suo mondo intenzionale è reso con esattezza. Me se il poeta è artista, scoppia la contraddizione, viene fuori non il mondo della sua intenzione, ma il mondo reale. Chi non ha la forza di uccidere la realtà, non ha la forza di crearla. Allora esce dall’illimitato che lo rende fluttuante, e prende una forma stabile, nasce e vive, ciò si sviluppa gradatamente secondo la sua essenza. Ora il mondo di dantesco trova la sua idea morale. L’idea morale non è concetto arbitrario e estrinseco all’argomento, è insito nell’altro mondo, è il suo concetto, perché senza quell’altro mondo non ha ragione di essere. Quell’idea diviene filosofia, è la stessa il contenuto, l’argomento, il corpo. Il lavoro diviene un insegnamento morale-politico sotto il velo dell’altro mondo. Il poeta spontaneo e popolare si volta nel poeta dotto e solenne; scrivendo per gl’iniziati, intellettuali e sani. Ci sono nati due mondi danteschi, uno letterale e apparente, l’altro occulto, la figura e il figurato. Con questo nuovo ardore italiani e stranieri si misero ad interpretare questo Giano a due facce o piuttosto a due mondi, l’uno visibile l’altro invisibile, ciascuno si provò ad alzare un lembo del velo di cui si è ravvolto dio. Dante così diventa un nome che spaventa, pieno di sillogismi e soprasensi, che mandano i confusione i commentatori; qui De Sanctis elenca le possibili varie opinioni dei critici, e mostra quanto possono essere diverse dal concetto che Dante volesse farci passare, ma

tramite le allegorie è possibile riconoscere in Lucifero il papa e in Beatrice l’eresia o la sua anima. Dante è stato illogico, è un poeta avviluppato in combinazioni astratte, trova mille aperture per farvi entrare l’aria e la luce. Cosi quel mondo intenzionale, tanto caro al poeta, si è andato a dissipare davanti alla luce del mondo reale. Tutto l’altro è l’astratto dell’altro mondo, è il lavoro oltrepassato : non è la commedia, è il suo di là, la sua nebbia, che pur se penetrata, lascia qualche ombra, che i gli interpreti unificano in un’unica ombra. Che cos’è dunque la commedia? è il medioevo realizzato, come arte, malgrado l’autore e malgrado i contemporanei. Il medioevo non era un mondo artistico, anzi era il contrario dell’arte. La religione era misticismo, la filosofia scolasticismo. L’uno scomunicava l’altra, bruciando le immagini. L’altra viveva di astrazioni e di formole e di citazioni. Gli spiriti erano tirati verso il generale, più disposti a idealizzare che realizzare. Nei poeti semplici trovi il reale rozzo, nei poeti solenni trovi una forma crudamente didascalica o figurativa e allegorica. L’arte non era ancora nata. C’era la figura, non c’era la libertà e la personalità. Dante raccoglie dai misteri la commedia dell’anima, e fa di questa storia il centro di una sua visione dell’altro mondo. Tutta questa rappresentazione non è che senso letterale, la visione è allegorica, i personaggi sono figure e non persone, ma ciò è attivo nel suo spirito, lo porta verso la figura e on verso il figurato. La sua natura poetica, lo costringe a concentrare, a materializzare e a formare anche ciò che è più spirituale e impalpabile, anche Dio. Non è più lettera ma spirito, non è più figura ma realtà. Visione e allegoria, trattato e leggenda, cronache, storie, laude, inni, misticismo e scolasticismo, tutte le forme letterarie e tutta la cultura dell’età è qui, inviluppata e vivificata, in questo gran mistero dell’anima, o dell’umanità, è un poema universale, dove si riflettono tutti i popoli, e tutti i secoli che si chiamano medioevo. Ma questo mondo artistico, uscito dalla contraddizione tra l’intenzione del poeta e la sua opera, non è compiutamente armonico, non è schietta poesia. La falsa coscienza politica disturba l’opera. Il pensiero, ora nella sua crudità scolastica, ora abbellito d’immagini, che pur non bastano a vincere l’astrattezza, vi ha troppo gran parte. Le sue figure allegoriche, talora, ricordano più i mostri orientali che la bellezza greca, personificazioni astratte, anzi che persone consce e libere. Non è un tempio greco : è un tempio gotico, pieno di grandi ombre, dove contrari elementi pugnano, non ben armonizzati. Ora rozzo, ora delicato, ora solenne, ora popolare, ora perde di vista il vero, ora lo riconosce immediatamente, ora teologizza, ora è sentimentale, ora fa allegoria, ora ti fa tremare la carne. I contrari elementi della società di quel tempo, contendevano in lui. Gli manca la serenità dell’artista.