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Storia e simboli del Matrimonio: una lettura iconografica, Summaries of History

Questo documento, tratto dalla rivista online Lineatempo n. 23/2012, offre una lettura storica e iconografica approfondita sul sacramento del matrimonio durante l'Antico Regime. la sacralità del vincolo matrimoniale, basato sul libero consenso degli sposi, e le costrizioni imposte dai legami sociali. Il documento illustra come la nozione di matrimonio ha evolversi dalla distinzione tra consenso di futuro e consenso di presente, e come la cerimonia matrimoniale si sia evoluta da una pluralità di riti a una cerimonia precisa per la sua validità. Vengono anche analizzate opere d'arte famose come I coniugi Arnolfini e Le due Trinità, che rappresentano il matrimonio e la sacra famiglia.

Typology: Summaries

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Lineatempo - Rivista online di ricerca storica letteratura e arte - n. 23/2012
CELEBRARE IL MATRIMONIO
Appunti per una lettura storico-iconografica del sacramento nuziale
di Marzia Giuliani
Il silenzio, gravido di preoccupazione e incertezza, che pesa nella casa di Lucia Mondella,
subito dopo la visita di fra Cristoforo, mentre ancora Renzo non si risolve ad allontanarsi dalla
sua promessa sposa, è rotto all’improvviso da Agnese, che ha maturato “un progetto”
capace, a suo dire, di far unire i due giovani in matrimonio, nonostante l’opposizione di don
Abbondio: “Per fare un matrimonio, ci vuole bensì il curato, ma non è necessario che voglia;
basta che ci sia”. “La cosa è facile” insiste, rispondendo alle perplessità di Renzo, e spiega:
Bisogna aver due testimoni ben lesti e ben d'accordo. Si va dal curato: il punto sta di
chiapparlo all'improvviso, che non abbia tempo di scappare. L'uomo dice: signor
curato, questa è mia moglie; la donna dice: signor curato, questo è mio marito.
Bisogna che il curato senta, che i testimoni sentano; e il matrimonio è bell'e fatto,
sacrosanto come se l'avesse fatto il papa. Quando le parole son dette, il curato può
strillare, strepitare, fare il diavolo; è inutile; siete marito e moglie.
Con la saggezza, che le deriva da quella consumata esperienza di cui ama vantarsi, Agnese
prospetta così l’eventualità di un matrimonio a sorpresa, che l’intervento narrativo dell’autore
conferma con l’autorità dello storico:
Agnese diceva il vero, e riguardo alla possibilità, e riguardo al pericolo di non ci
riuscire: ché, siccome non ricorrevano a un tale espediente, se non persone che
avesser trovato ostacolo o rifiuto nella via ordinaria, così i parrochi mettevan gran
cura a scansare quella cooperazione forzata; e, quando un d’essi venisse pure
sorpreso da una di quelle coppie, accompagnata da testimoni, faceva di tutto per
iscapolarsene, come Proteo dalle mani di coloro che volevano farlo vaticinare per
forza.
E nella celebre “notte degli imbrogli”, che i lettori potevano rivivere anche grazie alle
immagini a corredo del testo, va in scena la rappresentazione drammatica del fallito tentativo
da parte dei due giovani di celebrare il loro matrimonio a sorpresa: se Renzo riesce a
pronunciare la formula del suo consenso, la repentina, quanto inattesa, reazione di don
Abbondio impedisce a Lucia di recitare la propria.
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CELEBRARE IL MATRIMONIO

Appunti per una lettura storico-iconografica del sacramento nuziale

di Marzia Giuliani Il silenzio, gravido di preoccupazione e incertezza, che pesa nella casa di Lucia Mondella, subito dopo la visita di fra Cristoforo, mentre ancora Renzo non si risolve ad allontanarsi dalla sua promessa sposa, è rotto all’improvviso da Agnese, che ha maturato “un progetto” capace, a suo dire, di far unire i due giovani in matrimonio, nonostante l’opposizione di don Abbondio: “Per fare un matrimonio, ci vuole bensì il curato, ma non è necessario che voglia; basta che ci sia”. “La cosa è facile” insiste, rispondendo alle perplessità di Renzo, e spiega: Bisogna aver due testimoni ben lesti e ben d'accordo. Si va dal curato: il punto sta di chiapparlo all'improvviso, che non abbia tempo di scappare. L'uomo dice: signor curato, questa è mia moglie; la donna dice: signor curato, questo è mio marito. Bisogna che il curato senta, che i testimoni sentano; e il matrimonio è bell'e fatto, sacrosanto come se l'avesse fatto il papa. Quando le parole son dette, il curato può strillare, strepitare, fare il diavolo; è inutile; siete marito e moglie. Con la saggezza, che le deriva da quella consumata esperienza di cui ama vantarsi, Agnese prospetta così l’eventualità di un matrimonio a sorpresa, che l’intervento narrativo dell’autore conferma con l’autorità dello storico: Agnese diceva il vero, e riguardo alla possibilità, e riguardo al pericolo di non ci riuscire: ché, siccome non ricorrevano a un tale espediente, se non persone che avesser trovato ostacolo o rifiuto nella via ordinaria, così i parrochi mettevan gran cura a scansare quella cooperazione forzata; e, quando un d’essi venisse pure sorpreso da una di quelle coppie, accompagnata da testimoni, faceva di tutto per iscapolarsene, come Proteo dalle mani di coloro che volevano farlo vaticinare per forza. E nella celebre “notte degli imbrogli”, che i lettori potevano rivivere anche grazie alle immagini a corredo del testo, va in scena la rappresentazione drammatica del fallito tentativo da parte dei due giovani di celebrare il loro matrimonio a sorpresa: se Renzo riesce a pronunciare la formula del suo consenso, la repentina, quanto inattesa, reazione di don Abbondio impedisce a Lucia di recitare la propria.

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Queste pagine, che meriterebbero ben più approfondita lettura, costituiscono, nella verosimiglianza della storia narrata, una rappresentazione esemplare dei matrimoni d’Antico Regime, dalla quale può essere utile partire per ricostruire il divenire storico del sacramento nuziale nella complessità degli aspetti messi in luce dalla trasfigurazione letteraria manzoniana: la sacralità del vincolo fondato sul libero consenso degli sposi, da una parte, e dall’altra, le costrizioni imposte, a vario titolo e con varia forza, dai legami sociali. Sin dalla primi secoli dell’era cristiana, l’esercizio esegetico dei padri della chiesa aveva fatto dell’amore di Cristo verso la chiesa ( Efesini , 5, 32) il simbolismo sponsale per eccellenza, rivendicando da subito altezza e profondità spirituale alle nozze fra l’uomo e la donna. Il valore sacramentale dell’unione sponsale era avvertito con forza dalla coscienza collettiva ed era perciò riconosciuta la giurisdizione ecclesiastica su questa materia, sebbene i matrimoni fossero affari gestiti dalle famiglie, sulla base di interessi economici e sociali, e i riti nuziali non prevedessero la presenza di un sacerdote né la celebrazione in chiesa, presentando peraltro forme piuttosto varie. Nella seconda metà del XII secolo, toccò a un teologo dell’università di Parigi definire i criteri di validità del matrimonio, dibattuti fra i canonisti almeno dall’anno Mille: consensus facit nuptias stabilì Pietro Lombardo, che distinse il momento della promessa (consenso de futuro ), con la quale la coppia si impegnava a stringere il patto nuziale, e che spesso rappresentava il primo incontrarsi dei due promessi sposi, dall’atto del matrimonio vero e proprio (consenso de praesenti ), di cui si riconosceva l’indissolubilità. La distinzione, tutta giocata sui tempi dei verbi (al futuro o al presente) e affidata a gesti simili e talvolta fra loro intercambiabili (unione delle mani, scambio degli anelli), si rivelò troppo sottile per i fedeli, tanto spesso analfabeti, generando situazioni di difficile decifrazione, nonostante il quarto concilio lateranense (1215) avesse reso obbligatoria, per la validità del matrimonio, la


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unirebbe la mano sinistra alla mano destra della donna che gli è accanto, Giovanna Cenami, per stringere con lei un patto nuziale, cui alluderebbe la sua mano destra alzata in segno di giuramento: lo specchio rivelerebbe la presenza dei due testimoni, necessari per validare il patto, e la firma e la data apposte dall’autore sarebbero propri della stipula di un atto notarile, di un contratto matrimoniale, sebbene sia stato rilevato come l’indeterminatezza del gesto che lo sancisce non permetta di distinguere se si tratti di promessa o di nozze vere e proprie, forse celebrate clandestinamente. Più di recente l’ipotesi del ritratto, anzi del doppio ritratto, ha lasciato il posto a quella di un autoritratto, voluto dall’autore per celebrare la nascita del figlio primogenito, avvenuta proprio nel 1434. Gli oggetti, che compongono la stanza e ne indicano la quotidianità d’uso, attesterebbero lo status sociale raggiunto dall’artista e non sarebbero quei simboli allusivi al sacramento nuziale, tanto suggestivamente disvelati dalla celebre interpretazione di Panofsky (1934): gli zoccoli abbandonati in primo piano a marcare la sacralità del suolo, in ricordo del comando impartito a Mosè da Dio padre sul Monte Sinai; la protezione della figura sacra, intagliata nella spalliera della sedia, ove si riconosce santa Margherita custode delle partorienti, il cagnolino, da sempre simbolo di fedeltà, e il candelabro, con quell’unica candela accesa a richiamare la candela che il marito consegnava nel giorno delle nozze alla moglie o che in quel giorno si accendeva nella casa degli sposi. Una assenza importante infittisce l’enigma Arnolfini. Nel dipinto mancano gli anelli nuziali, che la chiesa di Roma, col tempo, era andato investendo del più alto valore simbolico per la celebrazione delle nozze. Lo testimonia con evidenza il successo ampio e duraturo arriso al tema pittorico dello Sposalizio della Vergine , in particolare fra il quattordicesimo e il sedicesimo secolo, a partire dalla scena affrescata da Giotto nel registro superiore della cappella degli Scrovegni a Padova nel 1301.


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L’episodio, tramandato dal vangelo apocrifo della Pseudo Matteo e dall’anonimo Libro della Natività della Vergine e fino ad allora affidato a una iconografia di ascendenza tutta bizantina, fu reinventato da Giotto, che ricondusse a una sintesi originale elementi propri della tradizione agiografica e aspetti tipici della pratica sociale a lui contemporanea. La scena si svolge davanti alle porte del Tempio, che occupa tutta la parte destra della sfondo. In accordo con il racconto degli apocrifi, Giuseppe è raffigurato come un uomo anziano, con barba e capelli canuti, che regge nella mano sinistra il segno della sua elezione divina a sposo della Vergine: il ramo di giglio fiorito, su cui sta posata una colomba bianca. Dietro di lui i giovani della comunità non nascondono la loro delusione per essere stati scartati e uno di loro arriva a spezzare con il ginocchio il suo legno, che è rimasto sterile. Di fronte a Giuseppe vi è Maria, effigiata con le sembianze di una giovane donna, accompagnata dal corteo delle sue coetanee. In mezzo agli sposi, ma un passo più indietro, sta il sacerdote, la cui presenza silenziosa si limita ad accompagnare il gesto che Maria e Giuseppe stanno compiendo: lo scambio degli anelli, di cui non v’è traccia nei testi apocrifi, ma che rappresentava pratica diffusa nelle cerimonie nuziali trecentesche, spesso indicate, con espressione metaforica, il “dì dell’anello”. Anche la mano, che quasi minacciosa un giovane alza alle spalle di Giuseppe, attiene alle usanze dell’epoca: si tratta della pacca assestata sul dorso dello sposo dal compater anuli come gesto di buon augurio. Dopo due secoli, all’aprirsi del Cinquecento, Perugino e Raffaello, versati in un dialogo a distanza, mediato dalla lezione giottesca, si cimentarono entrambi nella rappresentazione dello Sposalizio della Vergine : nelle due opere, eseguite nel 1504 e oggi custodite rispettivamente al Musée des Beaux di Caen


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un uomo maturo si candida ad essere un marito fedele e un padre esemplare per un figlio, di cui si vuole sottolineare l’umanità, vissuta per ben trent’anni nel nascondimento di Nazareth. La variante iconografica rispecchia così un sentire spirituale nuovo, legato a quella teologia dell’incarnazione, propria dell’umanesimo cristiano di primo Quattrocento. Nel prosieguo dell’età moderna, il tema della sacra famiglia acquistò una centralità sempre più marcata. Entro il rinnovato orizzonte spirituale del Cinquecento, segnato da un dibattito religioso dai toni sempre più accesi, il matrimonio fu investito di una attenzione affatto nuova, che riguardò anzitutto le forme stesse della sua celebrazione. Alla pluralità dei riti, ereditata, senza soluzione di continuità dall’epoca medievale, si sostituì la messa a punto di un rituale preciso, che si impose come necessario per la validità del matrimonio. Il Concilio di Trento, con il decreto Tametsi (1563), riaffermò tanto la natura sacramentale del vincolo nuziale, negato dai protestanti, quanto il fondamento teologico del libero consenso degli sposi, che venne però vincolato a una cerimonia ben precisa, sulla falsariga di quella introdotta dalla chiese protestanti per certificare il valore comunque religioso dell’istituto matrimoniale, passato ormai alla giurisdizione secolare nell’ambito della Riforma. Una precisa ‘pedagogia’ iconografica diffuse le forme del nuovo rito, illustrato a fine Cinquecento nell’apparato di incisioni a corredo delle Institutiones christianae di Pietro Canisio


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e rappresentato, sul finire dell’Antico Regime, nella serie dei I setti sacramenti di Pietro Longhi del 1750. All’impegno normativo si affiancò una grande impresa educativa volta a insegnare ai mariti e alle mogli, ai padri e alle madri i comportamenti più virtuosi per adempiere al meglio ai doveri del proprio stato, facendo di Maria e Giuseppe i modelli esemplari di riferimento. La Sacra Famiglia divenne uno dei temi prediletti della pittura devota europea fra Cinque e Seicento. Nel cuore del Siglo de oro della cattolicissima Spagna il pittore sivigliano Esteban Murillo consegnò alla contemplazione orante degli spettatori immagini ‘rubate’ all’intimità domestica di Nazareth. Nella celebre Sacra Famiglia del 1650, conservata al Museo del Prado, è tratteggiato con realismo un quadretto di vita familiare:


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In un interno domestico, altrettanto umile e angusto, Giuseppe lavora duramente e dalle sue mani prende forma il giogo di un aratro, segno di quello che il figlio dovrà, suo malgrado, addossarsi; il piccolo dorme sereno in una cesta di vimini in primo piano, vegliato da Maria, che, seduta dietro di lui, interrompe spaventata la lettura e, quasi presaga di qualcosa di oscuro, solleva la coperta poggiata sulla culla a controllare che il figlio stia bene. Non si avvedono, il padre e la madre, di quegli angeli che irrompono con soffusa luminosità dall’angolo sinistro del dipinto: il primo di loro si ferma in alto, proprio sulla culla, e dispone braccia e gambe nel segno inequivocabile della croce. Un intenso lirismo pervade questa scena, pur realisticamente descritta, perché nel dolore della sacra famiglia Rembrandt rivive il proprio dolore personale per la scomparsa dell’amata moglie Saskia, il cui volto traluce nel volto di Maria, e dei suoi tre figli. Come in un gioco di specchi ogni famiglia può riconoscersi nella Sacra Famiglia , che nel suo amore di relazione riflette qui ed ora l’amore eterno che lega il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Ne Le due Trinità (1670-1680), oggi alla National Gallery di Londra,


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Murillo pone al centro della raffigurazione la figura di un Gesù giovinetto, ritto in piedi, che tende le mani verso Maria e Giuseppe, posti in ginocchio ai suoi lati, ed alza lo sguardo verso il padre celeste e la colomba dello Spirito Santo: le due trinità appunto, disposte secondo un doppio schema piramidale, i cui vertici coincidono con il volto di Gesù. Una invenzione iconografica suggestiva, che forse Murillo deriva dalla letteratura devota a lui contemporanea: il frontespizio del commentario teologico al primo capitolo del vangelo di Matteo, opera del gesuita spagnolo Morales, reca nel margine alto del foglio l’immagine delle due Trinità, centrate entrambe sulla figura di Gesù.


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Intorno a una tavola già apparecchiata si raccolgono per il pranzo Giuseppe, Maria e il bambino giovinetto, che sotto gli sguardi amorevoli dei suoi genitori recita la preghiera di benedizione del pasto, il Benedicite. La composizione, diffusa attraverso le copie a stampa, conobbe un grande successo come immagine sacra e presto si affermò una interpretazione ‘laica’ del tema. Ne è un esempio il Benedicite di Chardin (fig. 14), che raduna intorno al tavolo una madre, ancora intenta ad apparecchiare, e le sue due figlie, con la più piccola intenta alla recita della preghiera come richiesto dai galatei dell’epoca.


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L’opera, entrata in possesso di Luigi XV e passata ai depositi del Louvre, conobbe nel cuore dell’Ottocento un rinnovato successo a seguito di una sua esposizione del 1848. Il pubblico borghese e la critica ammirarono la sobria essenzialità della composizione e insieme l’intensa moralità delle figure, in specie della madre, e ne restarono ammirati, quasi stupiti di ritrovare, fra gli ultimi scampoli dell’Antico Regime, un’immagine adatta ad incarnare le virtù – quelle de I promessi sposi , per intenderci – che la società borghese e liberale sperava potessero rilucere in ognuna delle famiglie dello stato/nazione. Queste virtù, che si volevano eredi di una tradizione di lunga durata, andarono a comporre il nuovo modello della famiglia borghese, che si affermò come il modello per eccellenza, naturale, universale e perciò imperituro, almeno nel suo valore esemplare. La sua storia, che è la storia degli ultimi centocinquant’anni del nostro passato prossimo, è ciò con cui oggi più direttamente siamo chiamati a confrontarci, non prima di aver ‘riscoperto’ l’intrinseca e affascinante complessità della tradizione che la precede. Nota bibliografica Un’agile e interessante sintesi divulgativa, che permette di approfondire le questioni relative alla storia del matrimonio, è fornita da Daniela Lombardi, che da anni dedica i suoi studi a questi temi: EAD, Storia del matrimonio dal Medioevo a oggi , Bologna, Il Mulino, 2008. Uno


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