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La costruzione di culture: capitale culturale e sociale, identità e appartenenze, Lecture notes of Social Anthropology

Sulla distinzione tra capitale culturale e sociale, l'importanza di evitare la naturalizzazione delle identità e delle appartenenze, e il ruolo della separazione in entrambe le culture. Il testo cita esempi di antropologi come Franz Boas e Claude Lévi-Strauss e loro studi sui differenti aspetti della cultura e della separazione.

What you will learn

  • Perché è importante evitare la naturalizzazione delle identità e delle appartenenze?
  • Che studiosi di antropologia vengono citati nel testo e quali argomenti essi sviluppano?
  • Che cos'intende l'autore per capitale culturale e capitale sociale?
  • Come il concetto di separazione influenza la cultura e le identità?

Typology: Lecture notes

2019/2020

Uploaded on 04/03/2020

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Blabbete 🇩🇪

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LEZIONE 12 (12/03/2019)
Abbiamo parlato di Malinowski e stavamo parlando di Olivier de Sardan, che ha scritto un saggio da cui è
tratto un pezzo del manuale, ma soprattutto avevamo visto, parlando di Malinowski, questo motto: “cogliere
il punto di vista dell’indigeno” (questo nasce da un’articolazione fra tre livelli di informazione, tre
contenitori. Avevamo parlato della metafora della società come persona, una persona che si compone di una
parte materiale e di una parte immateriale e in definitiva si tratta di 3 parti: lo scheletro, la carne e il sangue,
lo spirito.
- Per scheletro Malinowski intende questo: è la parte dura, l’architettura costituzionale, le norme, la
regolarità della vita sociale, quindi innanzitutto pensiamo alle norme, che possono non dirci molto sulla
realtà vissuta ma non sono la superficie. Quindi lo scheletro è l’architettura delle norme e delle istituzioni
riconoscibili in una società. Si pensi proprio alla costituzione, in una cultura a tradizione scritta, innanzitutto
le grandi istituzioni, la segmentazione del tempo, doveri, diritti ecc.
- La carne e il sangue rimpolpano questa architettura che altrimenti è molto arida e astratta, la vita quotidiana
è fatta di mille piccole variazioni, è fatta di trasgressioni, di significati attribuiti alle trasgressioni e quindi
l’antropologo, per Malinowski, deve tenere conto prima di questo piano normativo generale e poi vivendo la
vita, quindi non limitandosi a chiedere quali siano le istituzioni ma vivendo uno spaccato della vita sociale
che ha condiviso, che ha esperito. Nello spirito Malinowski inserisce tutto un campo culturale molto florido,
letteratura orale, mitologia, i proverbi, i modi di dire, i commenti, le discussioni sui significati. E ci parlava
di cosa può essere un commento proprio lo scarto tra lo scheletro e la carne e il sangue; perché è evidente un
po’ ovunque che ciò che noi diciamo in termini di rappresentazione astratta o teorica del nostro mondo, di ciò
che dovrebbe essere il nostro mondo, non corrisponde a ciò che registriamo. E allora questo scarto ha un
senso che diventa poi magari il centro di un dibattito socioculturale di oggi. Quindi sebbene il linguaggio di
Malinowski sia datato (1922), sebbene sia nato da un’esperienza in un luogo lontanissimo da qui, esotico per
eccellenza; ecco che cambiando il linguaggio, traducendo in altri termini, trasponendo con uno sforzo
immaginativo le questioni che valgono per Malinowski poi valgono anche qui da noi.
Olivier de Sardan, con lui avevamo accennato alla questione dello statuto da attribuire ai dati sul campo. Egli
scrive nel ’95 (scrive in questo contesto: a 70 anni dal libro di Malinowski, che diventa il canone
dell’antropologia, nel frattempo inizia ad esserci un dibattito enorme, che per certi versi è ancora in corso
anche se più moderato, sul valore dell’esperienza etnografica e sul diritto degli antropologi di raccontare
qualcun altro, di prendere la voce di qualcun altro ecc. Quindi per sintetizzare, è un contesto in cui non è più
così ovvio che qualcuno abbia l’autorità di scrivere su qualcun altro.) Allora lui propone una sorta di
compromesso fra le parti dicendo che i dati sono “la trasformazione in tracce oggettivate di pezzi di realtà
come sono stati selezionati e percepiti dal ricercatore”. Volendo cercare un ponte tra questi due autori così
distanti nel tempo, con tanta storia in mezzo (Malinowski scrive in piena epoca coloniale mentre Olivier de
Sardan si trova nell’epoca post-coloniale, che in antropologia è quanto avanti e dopo cristo, in termini di fine
discriminante) ciò che hanno in comune è la sospensione del giudizio. Il tema prende vaire forme, compare
non con questa espressione ma è riscontrabile sia nell’introduzione di Malinowski sia nel saggio di Olivier
de Sardan, ma in sostanza è l’essere disposti a cambiare idea, non presentarsi da qualche parte con un
armamentario, oppure presentarsi con un armamentario ma essere disposti a lasciarlo nella stanza. È evidente
che facciamo fatica a non giudicare e non possiamo cancellare i nostri riferimenti ideologici, morali ecc., ma
non è quella la nostra missione, la missione è di conoscenza e nel corso di questa missione, sospendere il
giudizio è uno strumento potentissimo perché se io mi faccio guidare dal mio giudizio per esempio
manifestando una certa riprovazione morale, soffermandomi sulla mia riprovazione morale, rischio di
fermarmi e allora devo avere la forza di abituarmi a condizioni differenti a quelle che sono abituato. La
messa tra parentesi del giudizio etnocentrico, quindi del pregiudizio dell’Occidente di essere misura e guida
del mondo viene meno. Questo è molto faticoso, che però è preliminare anche alla presa di posizione, alla
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LEZIONE 12 (12/03/2019)

Abbiamo parlato di Malinowski e stavamo parlando di Olivier de Sardan, che ha scritto un saggio da cui è tratto un pezzo del manuale, ma soprattutto avevamo visto, parlando di Malinowski, questo motto: “cogliere il punto di vista dell’indigeno” (questo nasce da un’articolazione fra tre livelli di informazione, tre contenitori. Avevamo parlato della metafora della società come persona, una persona che si compone di una parte materiale e di una parte immateriale e in definitiva si tratta di 3 parti: lo scheletro, la carne e il sangue, lo spirito.

  • Per scheletro Malinowski intende questo: è la parte dura, l’architettura costituzionale, le norme, la regolarità della vita sociale, quindi innanzitutto pensiamo alle norme, che possono non dirci molto sulla realtà vissuta ma non sono la superficie. Quindi lo scheletro è l’architettura delle norme e delle istituzioni riconoscibili in una società. Si pensi proprio alla costituzione, in una cultura a tradizione scritta, innanzitutto le grandi istituzioni, la segmentazione del tempo, doveri, diritti ecc.
  • La carne e il sangue rimpolpano questa architettura che altrimenti è molto arida e astratta, la vita quotidiana è fatta di mille piccole variazioni, è fatta di trasgressioni, di significati attribuiti alle trasgressioni e quindi l’antropologo, per Malinowski, deve tenere conto prima di questo piano normativo generale e poi vivendo la vita, quindi non limitandosi a chiedere quali siano le istituzioni ma vivendo uno spaccato della vita sociale che ha condiviso, che ha esperito. Nello spirito Malinowski inserisce tutto un campo culturale molto florido, letteratura orale, mitologia, i proverbi, i modi di dire, i commenti, le discussioni sui significati. E ci parlava di cosa può essere un commento proprio lo scarto tra lo scheletro e la carne e il sangue; perché è evidente un po’ ovunque che ciò che noi diciamo in termini di rappresentazione astratta o teorica del nostro mondo, di ciò che dovrebbe essere il nostro mondo, non corrisponde a ciò che registriamo. E allora questo scarto ha un senso che diventa poi magari il centro di un dibattito socioculturale di oggi. Quindi sebbene il linguaggio di Malinowski sia datato (1922), sebbene sia nato da un’esperienza in un luogo lontanissimo da qui, esotico per eccellenza; ecco che cambiando il linguaggio, traducendo in altri termini, trasponendo con uno sforzo immaginativo le questioni che valgono per Malinowski poi valgono anche qui da noi. Olivier de Sardan, con lui avevamo accennato alla questione dello statuto da attribuire ai dati sul campo. Egli scrive nel ’95 (scrive in questo contesto: a 70 anni dal libro di Malinowski, che diventa il canone dell’antropologia, nel frattempo inizia ad esserci un dibattito enorme, che per certi versi è ancora in corso anche se più moderato, sul valore dell’esperienza etnografica e sul diritto degli antropologi di raccontare qualcun altro, di prendere la voce di qualcun altro ecc. Quindi per sintetizzare, è un contesto in cui non è più così ovvio che qualcuno abbia l’autorità di scrivere su qualcun altro.) Allora lui propone una sorta di compromesso fra le parti dicendo che i dati sono “la trasformazione in tracce oggettivate di pezzi di realtà come sono stati selezionati e percepiti dal ricercatore”. Volendo cercare un ponte tra questi due autori così distanti nel tempo, con tanta storia in mezzo (Malinowski scrive in piena epoca coloniale mentre Olivier de Sardan si trova nell’epoca post-coloniale, che in antropologia è quanto avanti e dopo cristo, in termini di fine discriminante) ciò che hanno in comune è la sospensione del giudizio. Il tema prende vaire forme, compare non con questa espressione ma è riscontrabile sia nell’introduzione di Malinowski sia nel saggio di Olivier de Sardan, ma in sostanza è l’essere disposti a cambiare idea, non presentarsi da qualche parte con un armamentario, oppure presentarsi con un armamentario ma essere disposti a lasciarlo nella stanza. È evidente che facciamo fatica a non giudicare e non possiamo cancellare i nostri riferimenti ideologici, morali ecc., ma non è quella la nostra missione, la missione è di conoscenza e nel corso di questa missione, sospendere il giudizio è uno strumento potentissimo perché se io mi faccio guidare dal mio giudizio per esempio manifestando una certa riprovazione morale, soffermandomi sulla mia riprovazione morale, rischio di fermarmi e allora devo avere la forza di abituarmi a condizioni differenti a quelle che sono abituato. La messa tra parentesi del giudizio etnocentrico, quindi del pregiudizio dell’Occidente di essere misura e guida del mondo viene meno. Questo è molto faticoso, che però è preliminare anche alla presa di posizione, alla

forza di un giudizio, di un’analisi che è fondata proprio sulla conoscenza che abbiamo costruito. Quindi sospendiamo, facciamolo dopo, prima cerchiamo di conoscere con tutta la fatica del caso. Olivier de Sardan usa a questo proposito un proverbio della popolazione dell’africa occidentale, i bambara, che dicono “lo straniero vede solo quello che già sa”, prendiamolo dal campo, la saggezza di qualcun altro, e potrebbe essere un modo per definire come si lavora in antropologia tenendo conto di questo rischio (di vedere quello che già sa).

  • Avvicinarsi il più possibile alle situazioni naturali dei soggetti, in una situazione di interazione prolungata (l’aggettivo naturale potrebbe risultare blasfemo alla luce di tutto come costruzione culturale, ma qui va inteso in senso metaforico come ciò che è familiare, la situazione naturale è a sua volta culturale, è una situazione a cui è abituato il soggetto). In questo saggio ci riferiamo soprattutto al lavoro di campo nel senso tradizionale in antropologia, cioè quello che prevede una permanenza prolungata lontano da casa in un altro contesto. Non è questa l’unica maniera di fare lavoro sul campo, questa è quella più nota e non è l’unica. Io posso lavorare benissimo sul campo nella città in cui vivo e continuerò a dormire e mangiare a casa mia ma avrò un punto di frequentazione prevalente per una ragione o per un’altra, la vita di un quartiere, la vita nella selezione di un partito, un ambiente sportivo, l’altra volta facevamo l’esempio di lavoro sul campo con i neonazisti. Quindi in questa categoria non c’è l’immersione 24/24 perché vivo a casa mia però frequento un certo contesto, che in questo caso viene inglobato nella mia vita quotidiana, mentre se me ne vado in Siberia ecc. è la mia vita a finire dentro i lavoro di campo. Poi, interazione prolungata è un’espressione vaga e in realtà tutto il resto sarà un po’ vago.
  • Il rigore dell’inchiesta sul campo non è misurabile: è un problema che non riusciamo a risolvere del tutto, è per questo che parliamo più di adeguatezza che di rigore. Noi ci rendiamo conto di quanto un lavoro possa essere interessante e stimolante e non è tanto il vero o falso che ci interessa quanto l’interessante o il non interessante, il provocatorio ecc. Egli dice, tra le cose esplicite, piccolo paradosso, non si può insegnare il lavoro sul campo. Perché è una faccenda di apprendimento pratico, un saper fare, lo imparo mentre lo sto facendo. Il lavoro di campo ha anche una natura iniziatica, dopo un lavoro sul campo di almeno uno-due mesi, lo studioso è diventato almeno in parte un ricercatore sul campo e anche la persona si trasforma con il passare del tempo. Perdere tempo: fattore ineliminabile, è fondamentale perdere tempo, indugiare, soffrire di tempi morti, perché i tempi morti appartengono alla vita. Prendiamo appuntamento con qualcuno che si presenta in ritardo e intanto noi aspettiamo, parliamo con qualcuno e la chiacchierata non è interessante ma in realtà è molto importante per l’antropologo. Perdere tempo è un investimento, ed è la ragione per cui il lavoro di campo si fa in tempi abbastanza prolungati. Olivier de Sardan ci dice che ci sono quattro forme di produzione dei dati: osservazione partecipante, i colloqui, i censimenti e le fonti scritte. Questo è il suo modo di presentare la questione. Per ragioni di tempo non ci soffermeremo su censimento e fonti scritte, che sono comunque presenti nel saggio brevemente.
  • Questionari, interviste, colloqui: il questionario ha domande preconfezionate e anche l’intervista può essere rigida come un questionario, se io mi presentassi con una serie di domande da rispettare durante l’intervista starei facendo esattamente la stessa operazione del questionario. Invece ci deve essere una combinazione anche con il colloquio libero. La forza del questionario può essere che la eventuale generalità, l’affidabilità passa attraverso la possibilità che si trattino statisticamente i risultati, cosa che con il colloquio invece non c’è. Qualche debolezza invece è che nel trattamento statistico scompongo i risultati e quindi su ciascuna delle domande posso dire tipo il 30% ha risposto in questo modo ecc. e scompare però la persona. La persona che tiene insieme quelle risposte viene scomposta, ho le aggregazioni statistiche delle variabili. Contesto della giustificazione: operazione scientifico intellettuale che parte da un’ipotesi e la vuole dimostrare. Perché questa sia valida è necessario sondare il terreno con una serie di domande, io so già

generalisti sono quelli che ci aiutano più o meno su qualunque tema, copre più o meno tutta la cultura di riferimento. Il mediatore è qualcuno che ci mette in contatto con qualcun altro. È difficile che un mediatore non sia anche generalista ma a scopo analitico distinguiamo le categorie. La categoria generalista è costruita sul capitale culturale, cioè che cosa sai mentre la categoria mediatore è costruita sul capitale sociale, cioè che relazioni ha, quante persone conosce, generalmente fra i due capitali c’è rapporto, e poi gli specialisti che sono particolarmente ferrati su qualche aspetto dell’esperienza e non su altri. Uno specialista può essere un addetto rituale a qualche parte di un culto e noi andiamo a parlare con lui o lei perché sa cose specifiche su quell’aspetto del culto. La validità ecologica: l’antropologo dovrebbe cercare di interagire con le altre persone in condizioni a cui quelle persone sono abituate e che per loro non sono di disagio, in contesi che per loro non sono di disagio e che magari invece possono esserlo per noi. Quando una persona è disponibile a parlare. Il gruppo sociale testimone: è innanzitutto l’ambito familiare o di vicinato in cui io mi vado a collocare, le persone che mi ospitano, quelli con cui sto, quelli che vedo di più, frequentemente o meno, sul campo. La ricerca sul campo si fa attraverso il gruppo sociale testimone? Anche ma non esclusivamente, è fondamentale evitare di attribuire ad un intero contesto le caratteristiche di un gruppo sociale testimone. Anche se può diventare una sorta di gabbia. Questione connessa è l’incliccaggio: si tratta di che? (c’è nel saggio di Olivier de Sardan) Immaginiamo di arrivare in un luogo caratterizzato da una forte tensione politica-religiosa ecc. su una qualsiasi dimensione dell’esistenza. Può succedere che si venga riconosciuti da una delle due parti come parte dell’altra. Non possiamo tenere sotto controllo tutte le affiliazioni che caratterizzano un personaggio, soprattutto all’inizio quando sappiamo poco del contesto in cui ci muoviamo. Quindi le conseguenze sono: ci viene precluso l’accesso a una serie di informazioni. Ma il punto è che se c’è un clima di sospetto nei miei confronti e non è possibile eludere un contatto con me, quindi magari un contatto c’è, ma si situa in modo superficiale e con scarsa collaborazione, è essenziale fidarsi reciprocamente perché se l’altra parte non si fida di me allora avrò risposte che non servono a nulla, molto standardizzate. Quindi il rischio è di avere la visione del mondo limitata a quella parte che ci ha dato collaborazione rispetto all’altra parte. L’inclicclaggio impedisce la costruzione del patto di fiducia tra me e l’interlocutore. Il doppio vincolo: concetto elaborato da Bateson: condizione particolarmente frustrante di chi si è sottoposto ad indicazioni contraddittorie tra di loro e non possa correggerle. Noi siamo sottoposti a qualcuno di un’autorità superiore che manda indicazioni che si contraddicono tra di loro ed in ogni caso sbagliamo, siamo a rischio sanzione. Secondo Bateson questa è la struttura che porta alla schizofrenia, vivere situazioni di conflittualità in cui non c’è soluzione è uno degli sfondi della schizofrenia. Per rallegrarci, Oliver de Sardan, dice che la ricerca sul campo è caratterizzata dal doppio vincolo, questo significa che gli antropologi siano schizofrenici, ma dove si coglie questa possibilità? La possibilità si coglie nel modo in cui noi dobbiamo-possiamo relazionarci con il nostro interlocutore. Noi dobbiamo sia controllare sia lasciare libera espressione. Il principio della ricorsività ci indurrebbe a lasciare libera espressione. Olivier de Sardan dice che la condizione è quella di chi deve lasciare libera espressione e deve anche essere in grado di sapere quando questa libera espressione deve essere troncata. Lo stesso vale per il realismo simbolico: empatia e distanza. Credere nei nostri interlocutori oppure no, in linea di principio l’antropologo deve essere un “boccalone”. Ascolta qualunque cosa gli dicano, questo momento è preliminare alla costruzione di un rapporto. Anche qui non c’è una regola fissa e fa parte dell’apprendimento pratico. Saturazione: quando finisce la raccolta dati o ricerca sul campo? Quando si raggiunge il punto di saturazione, cioè quando le informazioni cominciano ad essere ripetitive. Le informazioni che acquisisco attraverso un colloquio non spostano più i termini della questione, possono arrivare dei dettagli che non conosco ma la mia rappresentazione di un certo contesto o fenomeno non cambia più, questo significa che almeno su quella questione ho raggiunto la saturazione.

LEZIONE 13 (14/03/2019)

Olivier de Sardan ritiene che le critiche debbano essere tenute in considerazione ma non devono inibire il sapere degli antropologi. Cioè anche quando ci sono una serie di dubbi, prendere consapevolezza di questa difficoltà, non deve indurre a lavorare peggio. Cioè non è una legittimazione per lavori di campo svolti senza attenzione, senza permanenza prolungata ecc. quindi se vogliamo smentire il proverbio bambara “lo straniero vede solo quello che già sa” la soluzione è sperimentare tutti questi dubbi attraverso la sospensione del giudizio, ricordarsi innanzitutto che ciò che è in gioco è la costruzione di un sapere, di una competenza. Tuttavia, il giovane studioso ma anche le persone con una carriera più lunga alle spalle che si chiedono che ne è della mia ideologia ecc. non va dimenticato, bisogna chiedersi in che maniera un antropologo possa rendersi utile rispetto alle proprie ideologie ecc. L’idea è “metti a disposizione le tue competenze, in questa maniera puoi essere utile” perché tutto ha una rilevanza politica, direttamente o indirettamente. Allora Remotti, in uno scenario come quello contemporaneo in cui si discute del diritto di alcune categorie di persone di costituire una famiglia e alcuni poteri si schierano contro questa possibilità, Remotti potrebbe dire “io sto dalla parte di chi vuole ottenere il diritto a dirsi famiglia” però questo prendere posizione non è in sé un processo politico, Remotti mette a disposizione il suo sapere a sostegno di un allargamento della nozione di famiglia. Noi dobbiamo cercare di preservare la nostra capacità di essere ascoltati, quando perdiamo la possibilità o la capacità di essere ascoltati, quello che noi pensiamo non ha più nessuna rilevanza, soprattutto se si parla di idee politiche. Se Remotti non avesse letto o consultato volumi in cui si parla di tipi differenti di famiglia non avrebbe potuto pensare all’argomentazione ampiamente sviluppata del volume nella forma di una lettera al papa, non avrebbe potuto dire “guarda quanti tipi di famiglie ci sono”. Una cosa che viene notata è la tensione nell’antropologia tra unità umana e molteplicità di manifestazione dell’umanità. Il dettaglio che ancora non abbiamo toccato è questo: possiamo immaginare questa molteplicità di manifestazioni dell’umano come un mosaico in cui ogni tessera del mosaico è una cultura? E l’insieme di queste tessere è l’umanità? Fino a qualche tempo fa la risposta sarebbe stata “sì”, il mosaico è una buona immagine della molteplicità delle manifestazioni dell’umano. Adesso invece la risposta vira verso il no. La molteplicità c’è, il problema è vedere nel singolo pezzo del mosaico una cultura come oggetto a sé stante. Cioè le manifestazioni colte nella loro differenza sono entità separate a compartimenti stagni? Ce le possiamo immaginare come tessere separate applicate in un mosaico? No, questa immagine poteva andar bene finché si è trattato di legittimare tradizioni differenti. Nel momento in cui si rischia l’equivoco di pensare alle singole culture come a degli oggetti con dei confini allora si è dovuto correggere il tiro e sottolineare un certo carattere fluido nelle culture, sottolineare le connessioni tra le culture, le sfumature, le somiglianze di famiglia e quindi capire che a dispetto delle rappresentazioni locali, mondi culturali vicini hanno una rete di somiglianze e il confine tra una cultura e l’altra è sfumato. (Brano di Linton, The study of Man sulla mescolanza)! quando parliamo di appartenenza culturale non dobbiamo trasformarla in un dato intrinseco, stabile, ineludibile. La questione cruciale delle identità e delle appartenenze è la naturalizzazione, idea che già era emersa nel concetto di cultura come costruzione umana che si nasconde e si presenta come natura, anche le identità e anche le appartenenze si cristallizzano, si irrigidiscono e naturalmente questo può portare in due direzioni pericolose, la razializzazione o l’etnicizzazione. Nel momento in cui prendo sul serio il concetto di razza o irrigidisco il concetto di etnia rischio di attuare operazioni discriminatorie o forme di violenza. Su questo fronte, il lavoro dell’antropologo consiste nel mostrare il fondamento culturale di ciò che appare naturale, il processo storico di costruzione di ciò che appare naturale. Su questo fronte c’è la tensione tra unità e molteplicità che si affronta facendo appello a due strumenti:

  • Intelletto etnologico. L’etnos sta per le differenze, l’irrigidimento delle differenze. Io, come antropologo in una certa epoca storia e quindi non avendo cognizione di quello che sarebbe potuto accadere, dico che c’è la cultura a, b, c e comunico l’impressione che ogni cultura sia un mondo

momenti fondamentali negli anni ’60 e ’70, due ricerche di cui una ricostruisce l’albero filogenetico dei rapporti parentali e viene fuori che Europei e Africani sono strettamente imparentati così come Asia e Australia. L’altra ricerca misura la variabilità genetica all’interno delle popolazioni e nei rapporti tra popolazioni differenti. Viene fuori che in termini quantitativi la differenza interpopolazione è solo leggermente superiore a quella intrapopolazione. Cioè la differenza genetica fra individui appartenenti a popolazioni differenti è solo leggermente superiore a quella che separa individui dello stesso gruppo. Quindi i confini etnici, razziali, non sono tracciabili se non forzando notevolmente la mano. C’è un elemento comune ai ragionamenti sulla differenza genetica e a quelli sulla differenza culturale ed è la natura della separazione, il ruolo che può avere la separazione. L’antropologia biologica ci dice che è la separazione prolungata tra gruppi a produrre la differenza, cioè la differenza tra gruppi non può essere il fattore legittimante un’eventuale separazione, è esattamente il contrario: è la separazione per lunghi periodi tra gruppi a far sì che prendano strade differenti, e questo vale assolutamente per la cultura. Questo vale anche per la cultura perché laddove c’è un confine rafforzato da ragioni politico-economiche, laddove c’è una barriera gli esseri umani elaborano la loro strada e lo fanno sempre in maniera circostanziale, per cui con meno scambi, meno contatti è probabile che elaborino forme culturali divergenti. A posteriori c’è il rischio che queste differenze poi vengano considerate come fondamento, come legittimazione di una separazione. Il modello multiregionale e il modello fuori dall’Africa, spiegano come siamo arrivati ad essere homo sapiens. L’elemento comune è che noi arriviamo dall’Africa ma nel primo modello multiregionale succede che ci sono flussi migratori distinti in momenti differenti che colonizzano il pianeta, ciascuno di questi flussi ha una sua evoluzione che passa attraverso specie differenti di homo e alla fine tutte queste specie diventano l’homo sapiens. Biondi e Rickards dicono che questo modello era fortemente illusorio e del tutto infondato perché non c’è nessuna ragione per pensare che gruppi differenti separati fra di loro debbano avere alla fine lo stesso esito evolutivo e diventare tutti la stessa specie, come quando parlavamo dell’evoluzione culturale dicevamo che è molto forzato credere che tutte le realtà culturali separate degli esseri umani debbano necessariamente arrivare ad un certo punto per una qualche legge dell’evoluzione che spinge in questa direzione. Il secondo modello, il modello fuori dall’Africa, conferma la nostra provenienza africana e semplicemente dichiara che l’unico ceppo sopravvissuto sul nostro pianeta di cui abbiamo certezza è il nostro, quindi siamo tutti provenienti dall’Africa, i flussi migratori sono partiti in momenti differenti, le altre varie forme di umanità non sono collegate a questo percorso e si sono distinte, quindi non abbiamo altri partner. La ragione per cui nella prima riga della schermata c’è Europa e Africa più imparentati fra come lo sono Asia e Australia deriva dal fatto che il nostro percorso di discendenza si è separato dagli africani in tempi più recenti: quindi c’è un primo flusso migratorio che si è allontanato vero l’Asia e poi l’Australia e un flusso successivo, di cui gli europei sono figli, che è rimasto più a lungo in Africa; quindi la differenziazione che c’è stata è più recente. È questo il motivo per cui sono più vicini gli europei e gli africani. È il tempo, unito alla separazione, a creare la differenza, quindi potremmo immaginare che se noi tornassimo ad avere dei percorsi completamente separati, senza contatti, un giorno potrebbero venire ad esistere le razze ma non esistono, e non sono esistite. Quindi la storia degli uomini è di migrazioni e contaminazioni, l’uomo non può essere suddiviso in categorie discrete perché non esistono popolazioni geneticamente pure. Separazione e distanza in arco temporale prolungato = differenza. La visione sostantivista è quella che deriva dall’intelletto etnologico, quindi l’intento classificatore, il desiderio legittimo di incasellare gli esseri umani in categorie. Ogni etnia è un’entità discreta dotata di una cultura, di una lingua, di una psicologia specifiche – e di uno specialista per descriverla. Barth, seconda metà del Novecento, autore più influente su questo fronte: dice che è il mantenimento di una frontiera a fornire continuità alla percezione etnica, alla percezione dell’etnia come la realtà, quindi è necessaria una rivisitazione delle differenze culturali, che non sono depositate ma ci devono essere le

condizioni anche politiche per riprodurle e per irrigidirle. La cristallizzazione di etnie rinvia sempre a processi di dominazione politica, economica o ideologica di un gruppo sull’altro. Esempio Rwanda e Burundi, quello è un caso esemplare anche di abuso di un linguaggio etnicizzante e tribalizzante, si è spesso parlato di uno scontro tribale, di un massacro su basi etniche, tribù che si massacrano a vicenda. In realtà la vicenda è esemplare per il processo di etnicizzazione, di costruzione delle appartenenze e di deformazione anche del senso delle appartenenze. Il rapporto tra gli Utu e i Tuzzi in Irlanda del Nord, essi erano legati da uno schema del rapporto tra gli autoctoni e gli immigrati. Moltissime città africane hanno questa rappresentazione basata su leggende ecc. in cui un gruppo di migranti si unisce a un gruppo di autoctoni: arrivano i migranti e insieme agli autoctoni danno vita ad una società. Questo sarebbe un pezzo dello scheletro secondo Malinowski, cioè l’organizzazione della società sarebbe basata su un dualismo, c’è qualcuno che ha in mano una versione locale del potere temporale, allora questo generalmente viene associato agli immigrati che sono portatori di novità su un fronte politico-istituzionale; l’autoctono si trasforma idealmente in un saggio custode della sfera rituale, di una dimensione più religiosa, ma in una società unica in cui si conserva memoria dell’esistenza di due linee di discendenza ma si è una società unica. Nel caso dei tuzzi il fatto che un gruppo abbia autorità politica e l’altro autorità religiosa viene cristallizzato, siccome questi immigrati mitologici erano pastori, viene fatta una categorizzazione etnica tipo schedatura di persone (quanti capi di bestiame possiedi? Se ne hai di più di un certo numero sei un tuzzi, se ne hai meno sei un utu, oppure se ne hai di più sei aristocratico e se ne hai di meno sei un poveraccio). Il passo successivo è l’irrigidimento sotto l’amministrazione coloniale in cui qualcuno vede crescere a dismisura il proprio potere e qualcun altro è ancora più oppresso di prima. Se lasciamo questo territorio e si apre un percorso democratico non ci interessa più il contatto con questa aristocrazia ma ci interessa controllare la maggioranza. Questo porta alla razializzazione, si parlava di razza tuzzi e di razza utu. Quando definiamo reali certe situazioni diventano reali anche le conseguenze e finiscono col crederci anche le persone che hanno subito le devastazioni legate a questo processo. Quindi mettiamo in piedi una rappresentazione, la rendiamo sempre più stabile, la trasformiamo in un processo di schedatura e alla fine ci ritroviamo con persone che credono di appartenere a una razza differente rispetto ai discendenti dello stesso popolo. Questo è un altro passaggio del brano sul manuale. Ci sono ragioni per cui l’etnicità diventa un valore positivo di identità, vengono a mancare altri supporti, qui vengono elencati per esempio il fallimento delle lotte di classe, che è un fattore che può contribuire alla ricerca di un altro supporto ???: non ho magari un partito o un sindacato di riferimento quindi può essere una soluzione puntare sull’etnicità. (approfondimento: l’identità etnica, Ugo Fabietti). Ghana Al confine con il Burkinafaso c’è una delle zone più povere del paese. Qui c’è una ricchezza culturale enorme, si tenga conto che il Ghana è una repubblica, più o meno come l’Italia, basata su una democrazia dell’alternanza. In Africa è una situazione di relativa stabilità. Oltre alla repubblica, primo elemento destabilizzante per un europeo, il Ghana ha una doppia appartenenza territoriale, ci sono dei regni, delle monarchie, ma non nel senso del vaticano, non stiamo parlando di situazioni extraterritoriali ma c’è una doppia giurisdizione: repubblicana e monarchica. Ci sono regni dentro il territorio in cui i re agiscono come autorità cosiddette neotradizionali in collaborazione con lo stato. Ma non ci sono solo i regni, ci sono anche i cifdom, che sono come dei distretti, dei principati che non hanno il re ma un capo. Nel caso dei regni, sotto il re che ha un ampio territorio ci sono molti capi che governano piccoli territori, alcune popolazioni ghanesi però hanno i capi senza un re, quindi non si va oltre al livello organizzativo del cifdom. C’è un fenomeno di costruzione etnica interessante: ci sono alcune popolazioni, le cosiddette tribù, le persone hanno una tribù di riferimento. Mangiameli si occupa dei kassena. Nell’insieme tutti si chiamano guruzi (?), quindi c’è una doppia appartenenza: i kassena sono anche guruzi (?). Da queste parti sono poche le fonti scritte quindi interpretare il processo di formazione etnica è complicato, si lavora con dei brandelli di storia, uno di questi è quello che riguarda la schiavitù. Ci fa vedere due abitazioni, una decorata e l’altra no, una di queste dall’alto

LEZIONE 14 (18 marzo ’19)

ETNICITA’

L’etnicità è una finzione, una messa in scena, tuttavia non possiamo bollarla semplicemente come qualcosa di falso. Una volta che gli esseri umani definiscono reali certe situazioni, diventano reali anche certe conseguenze: se noi definiamo reali certe categorie, l’appartenenza a determinate categorie diventa un fatto reale. E noi abbiamo il diritto di sentirci parte di una qualche categoria: come studiosi dobbiamo sempre ricordarci che tale categoria è una costruzione, non va generalizzata. Mondo sociale discontinuo: ogni categoria è rigidamente separata dalle altre. Si massimizza quindi l’omogeneità interna e si enfatizza la diversità nei confronti degli altri (dimenticando gli elementi di disomogeneità nel gruppo e gli elementi di omogeneità con gli altri). L’etnia è dunque un costrutto culturale mediante il quale un gruppo produce una definizione del sé collettivo o dell’altro collettivo. C’è un processo di produzione dell’identità etnica, che può essere più o meno evidente: non dimentichiamo appunto questo processo > il processo è qualcosa che è in corso, che si sta facendo. Fingere l’esistenza etnica è in realtà un fattore assolutamente concreto e reale. Come funziona il singolo gruppo etnico? In società prevalentemente orali, il mito delle origini ha la funzione di elemento costituzionale, quasi come carta costituzionale; nel mito non si parla solo di un passato assoluto, ma anche di un presente. Nella popolazione dei Kassena (Ghana) non c’è la presenza del mito: essi si considerano una tribù, senza dire e sapere il perché. I cifdon possiedono i loro propri rituali e i loro propri miti; ma tra di loro non sanno spiegarsi la comune appartenenza. I regni, che sono entità ben più complesse, hanno invece il mito unitario e addirittura hanno un mito che li va a federare tutti insieme, cioè c’è un mito che accomuna tutti i regni. Allora cosa caratterizza i Kassena? Si può parlare di vuoto di memoria. Esempio mito di Kaya (Burkina Faso): è un mito ricco di varietà, eterogeneità; qui è sottolineato che l’etnia è una costruzione e si ciba dell’alterità. Esempio mito di Chiana (Ghana): il fatto di dare un nome è un modo per cancellare un passato che non ci dice nulla e aprire una nuova fase storica per quell’individuo; anche qui si tratta di alterità. Esempio mito di Kayoro (Ghana): relatività del concetto di autoctono ; io sono autoctono rispetto a chi mi succede, a chi arriva dopo, ma costui sarà poi a sua volta autoctono rispetto a qualcuno che gli succederà ancora, e così via. Nel momento in cui ho una vasta serie di miti, che nel complesso formano un’identità etnica, si sta svelando proprio il dispositivo di creazione dell’identità etnica: sono proprio i miti a dirci che l’etnia è una costruzione, facendoci sapere che gli individui non hanno un’origine comune, sanno di non averla, ma nel complesso si riconoscono nei Kassena. INIZIAZIONE, NATURA, CULTURA Nel momento rituale massimo, nel momento dell’iniziazione, ci si pone una domanda: un uomo, che cos’è? Il dato cruciale di questo rito d’iniziazione letto in classe è il dubbio : si sa di vivere in un certo luogo, ma non si sa come ci si debba vivere; ci si appella allora al dio, che deve aiutare l’uomo nel suo percorso, deve insegnare all’uomo come si vive. Forma naturale/forma culturale: la forma di un albero emerge dagli elementi contestuali in cui l’albero stesso cresce; è un intreccio tra elementi naturali ed elementi umani, che lo condizionano nella sua crescita e nella sua forma. Prendere forma dentro un contesto, però, è anche un po' quello che si dice “diventare umani”: si diventa umani all’interno di un contesto sulla base di un’interazione non del tutto consapevole con altri elementi/organismi (altri esseri umani, animali, luoghi, ecc.). Diventare umani è dunque un viaggio: diventare ciò che si deve diventare, fare parte di un villaggio dopo un rito di iniziazione, non solo perché nati lì, in quel luogo. Nasci in un contesto, ma non ne fai davvero parte finché non passi attraverso un rito di iniziazione: noi dobbiamo diventare parte di quel contesto.

Il rito, per certi versi, ci deresponsabilizza: c’è una sorta di copione, è il rito stesso a dirci cosa dobbiamo fare (es. rito della messa cattolica, chi pratica sa più o meno come funziona, cosa si deve dire, come ci si deve comportare). Ma il rito mette anche in rilievo il dubbio esistenziale. Émile Durkheim : rito come strumento di coesione sociale, come strumento per fondare l’appartenenza e dunque la società stessa; egli studiò il totemismo in particolare, affermando che attraverso il rito, a prescindere da cosa sia venerato, ci si affida a questo oggetto/elemento/animale per riconoscersi come comunità (comunità di coloro che venerano quel dato oggetto/elemento/animale). Il rito dunque ci aiuta, è lui a collocarci. Arnold Van Gennep : membro della scuola francese; Les rites de passage (1909) > la nozione di “riti di passaggio” è legata a questo libro e a questo nome. I riti di passaggio si presentano in forma tripartita (solo apparentemente il passaggio separa un “prima” da un “dopo”, secondo una struttura bipartita):

  1. Separazione (riti preliminari)
  2. Margine (riti liminari) > la fase liminare, o di margine, è quella che più ci interessa: dopo una fase più o meno lunga, più o meno drammatica, di separazione dalla comunità e di compagnia con persone che come me si devono trasformare, io posso finalmente tornare in comunità. Spesso il rito liminare implica la minaccia, l’intimidazione, l’invasione.
  3. Aggregazione (riti postliminari). Questa struttura tripartita ci dà anche l’idea di una società fatta a scomparti, con una struttura relativamente rigida (come un edificio, in cui si passa da una stanza a un’altra). Van Gennep ha quindi evidenziato una regolarità: in tutto il mondo, in tutte le comunità, avvengono fenomeni ascrivibili alla categoria di “riti di passaggio”. Riti di iniziazione: espressione differente da “riti di passaggio”; spesso queste due espressioni sono usate come sinonimi, ma attenzione perché ogni iniziazione è un passaggio, ma non per forza ogni passaggio implica un rito di iniziazione. Ma perché c’è bisogno dell’iniziazione? Perché tanta ricchezza e varietà su questo fronte? Beh, per le stesse ragioni per cui esiste la cultura > l’essere umano è incompleto, dunque si interviene culturalmente per incanalare un processo di trasformazione che altrimenti non si saprebbe come guidare; l’essere umano non sa muoversi, ci vuole qualcosa che gli dica come farlo. Tanti tipi di iniziazione: puberale, tribale, religiosa, misterica, scolastica, accademica, sportiva, militare, associativa. Durante l’iniziazione si susseguono tre elementi: l’istruzione in primis, perché io durante l’iniziazione vengo istruito; in secondo luogo la trasformazione , poiché appunto l’iniziazione implica la mia trasformazione; poi c’è l’elemento di riproduzione , perché l’esito è previsto e ciò che deve avvenire è il riprodursi di una società così come la conosciamo. Esempio iniziazione dei Baruya (Nuova Guinea, studiata da Godelier): l’iniziazione dei maschi è particolarmente feroce e dolorosa, molto stancante per il corpo; durante l’iniziazione, dunque, il ragazzo deve mostrare contegno, forza e resistenza. Ciò che viene veicolato durante il rito è specialmente il rapporto uomo/donna. Iniziazione dei Tukuna (Amazzonia): l’iniziazione delle ragazze implica un lavaggio del corpo da parte di uno sciamano in due modi, una volta in senso contrario, cioè dal basso verso l’alto (a rappresentare l’inversione della nascita), un’altra volta con un veleno (che solitamente si usa per paralizzare i pesci durante la pesca, ma è considerato anche un contraccettivo). Questo lavaggio serve a frenare, simbolicamente, la fertilità proprio nel momento in cui la fanciulla sta diventando donna. Il problema è quello di portare avanti la vita delle popolazioni contenendo però l’esplosione demografica. Iniziazione dei Dii (Camerun): una donna anziana deve usare delle chele di granchio sul clitoride della ragazza per stimolarlo a lungo; alla fine si spiega alla giovane che quel dolore simula un rapporto sessuale
  • Analogismo: discontinuità materiale e spirituale > è un fenomeno multiforme riscontrabile nella storia europea, in Africa occidentale e in Cina: si parte da un’esplosione di differenze, dalla constatazione di una differenza spettacolare tra tutte le entità del mondo; si cercano poi piccoli elementi in comune che facciano da ponte tra un’entità e un’altra, per creare la base di un rituale. Cosa sono i modi di identificazione? Si tratta di contenitori ancora più ampi delle culture; sono sì contenitori culturali, ma più ampi e generali rispetto alla definizione di cultura di Tylor. Che cosa è una casa? Cosa ci deve essere perché sia riconosciuta tale? [Un confine (ingresso), un tetto, un luogo di socializzazione dove poter ospitare qualcuno, un luogo dove riposare, forse delle finestre]. Ci sono modelli di relazione e comportamento che orientano le pratiche senza affiorare alla coscienza: cioè, modelli non necessariamente esplicitabili in forma verbale. Esistono dimensioni non linguistiche dell’acquisizione, dell’attuazione e della trasmissione del sapere. In questo contesto dobbiamo calare anche l’eventuale riflessione sulla casa. Quando noi riconosciamo una casa non passiamo attraverso l’esplicitazione di una serie di tratti necessari che ci devono essere: la riconosciamo subito > “noi valutiamo la conformità di una casa con un insieme vago e inespresso di attributi di cui nessuno è essenziale al giudizio classificatorio, ma che sono tutti legati da una rappresentazione schematica di ciò al quale una casa tipica deve conformarsi”. Sapere che VS sapere come > es. della guida: l’apprendimento reale della guida si ha nell’incorporazione dell’automobile, che diventa una sorta di estensione del nostro corpo; si instaurano meccanismi che riconosciamo bene e che ci aiutano nella guida, ma questi stessi meccanismi sono difficilmente trasponibili in forme verbali.

LEZIONE 16 (21/03/2019)

21 marzo ’ [Relazione su documentario visto in classe: tra le 4000 e le 5000 battute, esercizio di scrittura creativa quindi testo completamente libero, da mandare entro una settimana.] Pierre Bourdieu (nel saggio di Jackson): campanello d’allarme rispetto a un’antropologia eccessivamente verbocentrica. Ragionare a partire dal limite del verbocentrismo > l’errore è quello di rinchiudere in concetti una logica fatta per fare a meno dei concetti. Philippe Descola : si ritorna allo schema; la proposta è quella di rifondare l’antropologia sulla scoperta di quegli schemi. Egli prende atto della diffusione del successo della nozione antropologica di cultura e dall’altra parte della nozione di habitus : la cultura è un concetto troppo ampio, gli habitus sono invece troppo specifici, troppo ristretti per permettere allo studioso di fare un ragionamento sistematico. La proposta è quindi quella di trovare una nozione a metà strada, che è appunto proprio lo schema. Poi di Descola abbiamo visto i quattro modi di identificazione: che cosa deduciamo da questi? Che l’ontologia esistente non è una sola, non è solo la nostra. Schemi (pag. 161):

  • Universali o acquisiti
  • Individuali o collettivi
  • Specializzati o integratori Cosa fa Tylor col concetto di cultura? Ci dice quali sono i suoi contenuti. Cosa fa Descola col concetto di schemi? Ci dice quali sono le procedure di produzione/riproduzione/interiorizzazione degli elementi culturali. MOBILITA’ E MIGRAZIONI

Nel manuale due casi di migrazione illustrati:

  1. Caso di migrazione interna in Africa, non verso un altro continente
  2. Caso dei rifugiati cambogiani negli USA (iniziato nel 1979 e poi proseguito) Il termine migrazione ha una forte connotazione politica di attualità; ma il concetto di mobilità è intrinseco all’essere umano: gli uomini si muovono. Una caratterizzazione molto forte che si dipana per tutta la storia umana è quella che distingue nomadi e sedentari: chi è sedentario ha un vincolo, un patto, non solo con l’ambiente in cui vive ma anche con gli altri individui stabili che lo circondano. È il patto sociale: attraverso questo patto si guarda con sospetto a chi ne è escluso, a chi è nomade. Mobilità e migrazioni sono fatti sociali totali, cioè interessano tutta la società in tutte le sue dinamiche e in tutti i suoi aspetti; per questa ragione si parla della migrazione anche attraverso la concezione di “funzione specchio”: osservando la mobilità e la migrazione di una società, posso trarre informazioni importanti sulla società stessa. Abdelmalek Sayad, La doppia assenza : libro sulla migrazione algerina in Francia molto interessante. La migrazione è un viaggio iniziatico, per certi versi, ma con esito incerto. Cos’è allora la doppia assenza? È la doppia assenza del migrante, che non è più membro della società di partenza e non è ancora membro della società di arrivo; qui è visto come estraneo, come eventuale minaccia, mentre nella società di partenza è visto come egoista, nuovo estraneo e traditore. Questa idea è fondamentale: ci induce a pensare alla migrazione nelle sue due componenti > studiamo un fenomeno migratorio costruendo uno spazio più ampio rispetto a quello in cui fisicamente si trova l’essere umano; il migrante crea una relazione tra il posto in cui si trova e quello da cui proviene. Dobbiamo immaginare uno spazio molteplice all’interno del quale collocare l’interpretazione della migrazione. Philip e Iona Meyer: si occupano dell’ambiente urbano in Sud Africa, ma in opposizione all’antropologia urbana che cerca ciò che è caratteristico della città eliminando residui rurali o eventualmente tribali; il loro approccio è quello di tenere in considerazione sia l’ambiente urbano sia quello tribale di provenienza, senza cercare di tradurre il loro studio in un unico profilo umano. Distinguono poi i migranti “red” e i migranti “school”: i primi sono coloro i quali si riconoscono nella tradizione tribale pur traferendosi in città, rivendicano la loro provenienza e soffrendo l’invasione coloniale; i secondi sono migranti africani in città che aderiscono a un modello sociale fortemente occidentalizzato basato su un’educazione e istruzione occidentale, con anche religione cristiana. Tra queste due categorie c’è una barriera fortissima, che addirittura impedisce il matrimonio misto, è una sorta di apartheid interno. Aihwa Ong: i rifugiati cambogiani in USA; nel 1979 esplode l’emergenza dei cambogiani da accogliere, che si vanno a posizionare in un livello molto basso della società americana. Alla fine del saggio si raccontano momenti di vita quotidiana, per mostrare una dinamica conflittuali di valori; questo conflitto interno è esasperato quando i giovani aderiscono al modello della società ospitante. Visione documentario: Pasta nera, regia di Alessandro Piva.

LEZIONE 17 (02/04/2019)

Nella lezione precedente parlavamo del problema della famiglia naturale rispetto all’antropologia, che è la questione centrale del volume di Remotti. In sintesi: la contro argomentazione elementare dell’antropologia è che esistono, nella storia dell’umanità, numerosi tipi di famiglia; c’è una grande variabilità su questo e c’è anche nel presente. Quindi porre un tipo di famiglia come naturale rispetto agli altri risulta discutibile perché implicherebbe una qualche forma di esclusione delle altre, come se le altre non fossero realizzazioni umane. Per eccellenza la famiglia, discendenza, parentela, sono costruzioni culturali degli esseri umani. Abbiamo parlato anche di efficacia a partire da un cartello mostrato durante la manifestazione a Verona: “ogni volta che dite famiglia naturale un antropologo muore”. L’azione culturale, politica che ci appassiona, l’autovalutazione di ciò che facciamo politicamente dovrebbe essere parte integrante dell’azione stessa.

parlando della questione antropologica in generale che si applica anche alla famiglia. Mangiameli ci racconta di quando ha mangiato carne di gatto. Io so che c’è una ragione etica per mangiare un animale e non un altro, so che dietro la scelta di non mangiare il gatto c’è una consuetudine culturale e non una necessità, però se non voglio mangiare il gatto semplicemente non lo mangio. Poi però ci racconta che ad un certo punto lo mangia e succede questa cosa: il palato reagisce con entusiasmo e contemporaneamente ha i conati di vomito. Questo perché tendenzialmente non si mangia il gatto in Italia ad esempio, però contemporaneamente il gatto era buono al gusto. Come si può reagire a questa esperienza? È facile pensare che la reazione delle parti digerenti sia culturalizzata da una tradizione mentre il palato reagisce in un modo diverso, ma in realtà anche il gusto reagisce ad un’attitudine costruita nel tempo. (si torna al potere delle idee e dei costumi che ci stringe fino nel profondo, controllando persino i conati di vomito). Su questo la riflessione degli antropologi è molto antica, sin dai tempi di Boas si parla dei ceppi delle consuetudini, le catene della tradizione. L’impresa antropologica ha questa ambivalenza, perché da un lato valorizza anche i costumi più umili, irrazionali, imbarazzanti; quindi un rapporto positivo con i costumi e la tradizione culturale, contemporaneamente però può operare l’attraversamento, quindi abbracciare questa variabilità, leggere l’etnografia significa relativizzarne l’importanza. In parte se ce ne sono tante altre posso moderare l’importanza della mia. Levi-Strauss usa parole molto significative! “il processo di socializzazione come perdita di possibilità.” L’istruzione stesa può fare questo, cioè l’essere umano come potenzialità a 360° proprio perché è incompleto, proprio perché è informe, ma via via che va avanti la socializzazione, via via che veniamo precisati come appartenenti ad un certo contesto perdiamo delle possibilità che vengono inibite, cancellate, rimosse. Quindi il processo di socializzazione, rispetto a una apertura generale, è una riduzione, allora tornando al rapporto con la ragione e con la natura, c’è la possibilità che la stabilizzazione della cultura, la sua naturalizzazione produca questa legittimazione per cui noi siamo umanità a pieno titolo, mentre gli altri no, sono negazione della ragione, negazione della natura. C’è un passaggio molto forte di Remotti in cui perde un attimo l’essere antropologo piemontese apparentemente inoffensivo e moderato, in questo passaggio prende una posizione un po’ più forte “la stabilizzazione dei propri costumi mediante la rivendicazione per sé della natura e della ragione universale…” cioè dire che noi abbiamo la ragione universale è anche il preludio per legittimare forme di violenza. Rispetto a tutto questo l’antropologia cosa può aiutare a fare? Sottrarsi al potere dei costumi, dopo averli nobilitati, provare a sottrarsi a questo potere. È uno sforzo che non può mai essere del tutto portato a termine, lo dimostra la vicenda del gatto, non si può del tutto operare una liberazione, però l’antropologia va in questa direzione, sottrarsi, e lo fa anche sottolineando il piano meta-culturale di riflessione, sottolineando l’esistenza nelle culture di momenti, di contesti di riflessione, di relativizzazione, oppure di messa in mostra del dispositivo; momenti in cui la cultura si rivela per quella che è, cioè costruzione, una possibilità e non una certezza. Qualcosa che è stato fatto e che forse non è stato fatto in maniera concreta, qualcosa che può fallire, non qualcosa di necessario. È necessaria la cultura in generale ma non la forma singola. Questo piano lo possiamo trovare nel rituale, nei riti di iniziazione, in tutte quelle partecipazioni ad alta partecipazione in cui noi siamo membri di una società, partecipanti attivi all’esperienza collettiva ed eventualmente anche sottoposti a qualche prova, qualcosa di cui discutiamo, qualcosa che ci appassiona. A questo proposito ci mostra il filmato fatto da lui mentre si trovava in Ghana nel 2003 con i coccodrilli sacri. Nel mito di fondazione di questa zona si parla di un uomo in fuga, un uomo che ha perso la competizione per diventare capo, il vincitore è suo fratello. Teme che il fratello lo voglia uccidere, quindi si muove verso sud inseguito effettivamente dalle truppe del fratello. Ad un certo punto succede che si trovano di fronte ad un fiume e non riesce ad attraversare e stanno arrivando i nemici. A quel punto appare un coccodrillo, l’uomo e il coccodrillo si conoscono perché gli viene in mente che fra la linea di discendenza dell’uomo e quella del coccodrillo c’era un patto, un accordo di non belligeranza che decidono di rinnovare. Quindi l’uomo dice se tu mi aiuti non ti farò mai del male, il coccodrillo accetta, entra in acqua, le acque si aprono e quando sono passati dall’altra parte le acque si richiudono e gli inseguitori non riescono a passare. Una volta dall’altra parte nasce una comunità locale, si stabiliscono ecc. Qualche tempo dopo uno dei suoi

figli cacciatori, si mette nei guai e finisce in una fossa, non riesce a venirne fuori, spunta un coccodrillo che lo riconosce e lo porta fuori. In un secondo momento questo cacciatore decide di lasciare la casa dei territori e di stabilirsi in un nuovo territorio che è quello attuale in cui nasce una nuova discendenza, che è quella dei capi, ciascuno dei quali è un coccodrillo. Sulla base del patto tra umani e coccodrilli non solo gli uomini non fanno del male al coccodrillo ma anche il coccodrillo diventa mansueto e soprattutto ogni uomo è un coccodrillo e ogni coccodrillo è un uomo. Questo significa che c’è un’anima condivisa tra due corpi, io membro del gruppo di discendenza con il mio corpo ho un’anima che mi mette in connessione con un altro corpo che è quello del coccodrillo. Questo è il sistema. Domanda: se dovessimo scegliere un aspetto particolarmente significativo cosa sottolineeremmo? Apertura delle acque: in contesto diffusionista ci sono elementi che indussero alcuni studiosi a parlare di una derivazione egiziana. Tema dell’estensione dell’umanità all’esterno dei confini dell’anthropos. Quante costruzioni mitologiche non occidentali raccontano di una condizione originaria in cui l’umanità rispetto alla specie è molto più ampia ed è in realtà la storia che la limita. C’è comunque un’attività pratica che si produce nella credenza. Il sistema di credenze ha una sua realtà. La sintesi è che c’è una rappresentazione della natura intima degli esseri umani (noi che cosa siamo? Siamo coccodrilli). Siamo su un piano ontologico, questa è la mia natura, però la mitologia ci dice che questo elemento di natura imprescindibile nasce da un fatto storico culturale, è perché abbiamo fatto un patto che la nostra natura è questa. Si tratta di una “bomba”, conferma tante riflessioni sui fondamenti stesi dell’antropologia: la natura è intrisa di cultura, io sono un coccodrillo perché c’è stato un patto. Dico che la mia natura dipende dalla cultura, e dico anche che questi animali sono a loro volta produttori di cultura, soggetti con i quali ci relazioniamo. Senza volerlo il sistema culturale dei kassena potrebbe dialogare, con un altro linguaggio, con il pensiero anti-specista, con il pensiero ambientalista, poi ovviamente non è questo lo scopo però c’è questo elemento. L’idea di una natura che dipende dalla cultura, ed è così incerta da essere sottoposta a una prova, io vado e mi avvicino a questi animali e metto a rischio la credibilità del sistema di idee. Esistono elementi poi che sono di protezione del sistema di credenze: se vengo attaccato dal coccodrillo allora io sono un essere indegno ed è per questo che sono stato attaccato. La culturalizzazione penetra non solo nella natura umana ma anche nella natura non umana. Sono meccanismi di spiegazione già pronti, rende legittima la risposta “i coccodrilli erano francesi”. È significativo vedere che quello che è apparentemente uno spettacolo per gli occhi del turista occidentale, a caccia di esotismo, di cose bizzarre, quell’operazione è alimentata dalla mia presenza. Il processo di addestramento è alimentato paradossalmente dal fatto stesso che andiamo a vedere, è una sorta di macchina che si autoriproduce, senza questo sguardo esterno non sarebbe riproducibile, questo è interessante perché non è un mondo chiuso in sé stesso ma ha bisogno di alterità per avere un senso. Quindi piano meta-culturale di riflessione: categoria generale che poi può prendere mille forme, nel caso mostrato serve a prendere atto del carattere culturale del comportamento di un coccodrillo. L’umanità di un coccodrillo si ferma con i kassena francesi, che sono differenti. Come mai questo esempio? Quando Remotti parla del piano meta-culturale e si avvia a parlare di stabilizzazioni relative parla di relazioni uomo-animale. Tutto quel mondo quindi che storicamente è stato etichettato in maniera imprecisa come totemismo. “chi si accontenta del relativo” si accenna alla stabilizzazione relativa basata sulla natura con alcune caratteristiche particolari. Non trasformano i nostri costumi particolari in un modello universale valido per tutti, ci si può rivolgere alla natura come elemento di stabilizzazione senza assolutizzare ma attraverso una prospettiva relativa. Questa strada può essere percorsa attraverso le stabilizzazioni relative, quei fenomeni che sono stati resi noti con l’etichetta di totemismo. Il totemismo sicuramente ha a che fare con le relazioni tra umano e non umano, non necessariamente umani- animali ma anche vegetali. Uno degli studi più influenti sul totemismo che Remotti cita è quello di Durkheim. L’operazione compiuta da Durkheim è caratteristica di un certo clima culturale, la ricerca delle forme elementari, le forme primitive

di differenze, il totemismo consiste nella correlazione tra questi due sistemi di differenze, avere un intero universo in cui ci sono gruppi umani che sono associati a specie vegetali o animali, in cui ciascuno è costretto a fare più o meno quello che fanno i kassena. Io mi riconosco in questo animale ma contemporaneamente mi accorgo che questa natura intima ha un carattere limitato perché ci sono altri che non si riconoscono in questo animale.. Levi-Strauss si spinge fino a parlare di una sorta di internazionalismo del totemismo; perché se io sono un coccodrillo (esempio presente nel libro di Remotti) posso anche immaginare che da qualche altra parte c’è qualcun altro che è un coccodrillo; noi non siamo legati da un qualche tipo di alleanza, non condividiamo niente eppure anche lui è un coccodrillo. Quindi c’è uno straniero che è come me e quindi indirettamente abbiamo qualcosa in comune. Per questa via, richiamandosi anche a Morgan, parla della natura assolutamente raffinata, solidale del totemismo; implicitamente, perché non è un aspetto dichiarato. Ci sono tre passaggi nella storia dell’antropologia sul ruolo che possono avere le specie animali, le proibizioni e l’eventuale sacralizzazione delle specie animali.

  • Il primo passaggio è il buono da mangiare: sintesi per dire che ci può essere una riflessione materiale, strumentale sulle specie e quindi le proibizioni hanno una logica strettamente funzionale.
  • C’è la posizione di Strauss: gli animali, le specie sono buone per pensare, per pensare alle differenze sociali: penso a tutta una serie di specie e contemporaneamente sto pensando alle differenze sociali. Si conserva la memoria di non si sa quanti gruppi umani corrispondenti a non si sa quante specie animali e vegetali, il mio semplice essere parte di questa società e conoscerne le differenze automaticamente implica una conoscenza botanica e zoologica perché devo conoscere un numero enorme di animali e di specie vegetali per conoscere i gruppi umani con i quali ho delle relazioni.
  • Infine c’è la proposta di Remotti: la natura, attraverso le sue specie, è buona per stabilizzare, cioè per operare queste stabilizzazioni relative che contengono un’apertura implicita all’alterità e alla differenza, a differenza invece delle stabilizzazioni assunte.

LEZIONE 18 (04/04/2019)

Fine del corso 13 maggio -14 maggio (9 maggio forse no lezione)

Stavamo parlando delle stabilizzazioni relative, fondamentalmente gli antropologi hanno lavorato presso società caratterizzate da stabilizzazioni relative, società relativamente fluide, che tendono a riconoscere una certa forma di divenire nelle loro costruzioni culturali e soprattutto nell’umanità stessa. I riti di iniziazione sono parte integrante. Nella lettura che ne fa Levi-Strauss e anche nella lettura che ne faceva Morgan, il totemismo rappresenta l’embrione di una società internazionale, il riconoscimento che l’umanità non finisce ai confini del nostro clan. Questo è molto importante perché nelle pieghe della costruzione totemica si percepisce un bisogno di alterità, l’associazione tra il totemismo e l’esogamia, il fatto che un gruppo totemico sia anche un’unità esogamica fa sì che noi, che siamo gli orsi o i lupi o l’animale che preferiamo, abbiamo bisogno di umanità differenti per contrarre il matrimonio, noi non siamo autosufficienti, noi lupi abbiamo bisogno degli orsi, le mogli verranno dagli orsi e le nostre figlie dai lupi. Quindi dietro queste forme di rappresentazione simboliche, in realtà ci sono modelli organizzativi molto importanti. Dall’altra parte, rispetto alle stabilizzazioni relative, ci sono le stabilizzazioni assolute, che sono proprio quelle contro cui si muove Remotti, rispetto alle stabilizzazioni assolute scrive questo libro (il titolo “Contro natura” fa riferimento alla stabilizzazione assoluta per eccellenza che è la natura). Le stabilizzazioni assolute possono essere varie, la natura lo è certamente e anche la ragione può esserlo. Remotti dice che ci possono essere stabilizzazioni di tipo naturalistico e di tipo storicistico, anche la storia può essere elemento di stabilizzazione, se letta come percorso unico e necessario, la missione di compimento della ragione, dell’umanità, come percorso unico e necessario, ecco che anche la storia può essere fondamento di stabilizzazione. Le conseguenze per i nostri scopi di una stabilizzazione basata sulla natura, cioè la

giustificazione di un assetto culturale come rispondente alle necessità della natura, oppure la sua giustificazione come rispondente agli esiti più nobili della storia, le conseguenze sono duplici nel rapporto con l’altro perché l’altro può essere l’altro, il differente che non si conforma, può essere respinto nel dominio del contro natura proprio perché il suo comportamento, è irrazionale, non ha senso, non è giustificabile, oppure può essere respinto come fuori dalla storia, fermo, incapace di affrancarsi dalla natura stessa. Allora, e qui veniamo alla digressione di oggi, ecco che ci sono popoli che apparentemente vivono dentro la natura, cioè non hanno sviluppato un percorso storico, questa è una lettura chiaramente etnocentrica. Cos’è che c’è di più lontano del percorso di cui l’occidente va fiero? Qual è la forma di umanità più lontana da quella dell’occidente industrializzato? Normalmente i cacciatori ecc. perché non producono, non hanno un’organizzazione formale particolarmente sviluppata ma soprattutto non producono, si accaparrano ciò che trovano. I cacciatori e raccoglitori sono l’esempio principe di umanità secondo lo sguardo occidentale. Gli esempi più famosi sono africani, i pigmei e i boscimani. In generale però è proprio l’operazione di caccia e pesca come fondamento della sussistenza a marcare la differenza. Parliamo di un caso particolare: inuit. Gli inuit sono meglio noti come eschimesi, dove la denominazione è quella di inuit che significa semplicemente “umani”. Ci interessano proprio rispetto alla questione della famiglia perché storicamente hanno costruito una pratica familiare che per i canoni della stabilizzazione assoluta dovrebbe suonare abbastanza bizzarra. Apparentemente o in generale la famiglia inuit è monogamica: la prima caratteristica del matrimonio è il fatto che il matrimonio non c’è. Non c’è rituale, non c’è cerimonia, non c’è niente a sancire l’unione di due persone. Non c’è l’investimento economico neanche. È curioso che due persone si mettano insieme improvvisamente, senza preparazione, senza investimento e si separano senza particolari traumi. Nonostante questo, è proprio il suo inserimento in un contesto radicalmente differente a creare differenze, questo matrimonio in realtà è indissolubile, questo è il paradosso. Due persone si possono lasciare in qualsiasi momento ma in realtà non si lasciano mai. I due coniugi restano tali ma il rapporto è disattivato. Il che non significa che non si possa disattivare, anzi, in un secondo momento potrebbero decidere di riavviarlo e potrebbero avere forme di collaborazione anche nonostante il nuovo matrimonio in cui entrambi vanno ad inserirsi: io mi risposo, tu ti risposi, ma se lo riteniamo utile possiamo trovarci ad aiutarci in 4, una sorta di famiglia allargata, evidentemente non colpita da problemi di gelosia, che non ha motivo di esistere perché l’unione è molto libera e anche la separazione. Però a questo si aggiunge, e forse è un po’ lo strumento che spiega tutto il resto, un’altra istituzione che è il co-matrimonio. Il classico caso di istituzione apparentemente stramba, istituzione esotica, che proprio perché stramba viene facilmente equivocata. Lo sguardo occidentale è passato su questo co-matrimonio e si è soffermato sul fatto che questo assomiglia allo scambismo, sa di promiscuità, ma in realtà è una forma di alleanza tra due coppie che decidono di aiutarsi nelle circostanze della vita e lo fanno con il rapporto sessuale. Questo può anche non ripetersi, può anche essere una volta, serve a dire che d’ora in poi non siamo co-sposi. Questo esempio può essere utile per noi perché se accettiamo di ragionare serenamente di fronte a cose di questo genere possiamo fare tutti i passi successivi del lavoro dell’antropologo: mettere insieme informazioni senza giudicarle. Cosa c’è per Remotti di significativo qui? Vedere che l’indissolubilità, nonostante le apparenze non è una caratteristica esclusiva di certe forme di monogamia. Inoltre, è interessante per un antropologo proprio l’assenza del trattamento rituale, del matrimonio, apparentemente un’assenza di cultura, come se venisse a mancare tutto quell’apparato che chiamiamo cultura. Ad esempio, il funerale mi deresponsabilizza in un momento di difficoltà, il fatto che non ci sia un copione invece il soggetto si carica sulle spalle la gestione del matrimonio e del suo eventuale allargamento con altre coppie, sono io a dover decidere se, con chi, come farlo. Non è la cultura che mi dice cosa posso, devo o non devo fare. Nanuk relazione (oggetto mail)

LEZIONE 19 (08/04/2019)

Esistono due stabilizzazioni: assoluta e relativa.